La morte di Pantani, avvenuta il 14 febbraio di due anni fa, mi addolorò per motivi personali e questioni di carattere più generale. Per motivi personali, perché il Pirata cadde nel corso della Milano - Torino del ’95 a poche centinaia di metri dalla mia abitazione di allora. Per coincidenza, quel giorno d'ottobre stavo seguendo un corso al Cto, dove fu ricoverato a causa della frattura a tibia e perone, e ricordo il frastuono delle sirene spiegate di ambulanze e polizia. Passando spesso da quelle parti, vedevo il camper del padre che sostava nei pressi dell’ospedale: ma per pudore non ebbi mai il coraggio di domandargli come stava il figlio. Da appassionato di ciclismo, seguii in seguito con entusiasmo le sue imprese al Giro e al Tour. E mi rattristai molto nel vedere il suo irreversibile declino, causato anche – era evidente – da vicende extrasportive (depressione, tossicodipendenza).
Da un punto di vista più generale, il caso Pantani mi pare emblematico. Dapprima tv e giornali fecero a gara a chi esaltava maggiormente le gesta del campione. L'audience era ai massimi livelli e il personaggio vendeva bene. Dopo la squalifica a Campiglio nel ’99, venne viceversa sottoposto a un linciaggio senza uguali e finì abbandonato come una bici vecchia da mettere in soffitta. Eppure, su diverse vicende di doping i media hanno steso un velo d’indecente omertà. Altri ciclisti sono stati beccati (e lo sono tuttora) in dopaggio ancor più flagrante. Tanti calciatori l’hanno fatta franca e rimangono oggi praticamente impuniti.
La verità sta nel fatto che stampa e televisioni si accaniscono sempre contro coloro che non possono difendersi, preservando dagli strali i potentati economici. E Pantani, a partire da un certo momento della propria esistenza, non fu più capace di opporsi.