Dolce è la notte nel nostro rifugio. Dico nostro pur sapendo che è tuo, che mi ci hai condotto per mano, con passo svelto e animo lieto. Avverto tuttavia che un po’ mi appartiene, perché qui mi ritrovo avvolto da un calore confortevole. E qui ritorno ogni tanto con il pensiero, quando chiudo gli occhi, o mi allontano dal mondo che gira troppo veloce.
Ecco, il fuoco acceso del camino illumina il salotto con prismi di luce rossastra. Ti vedo come un’ombra sottile sdraiata sul divano. Stai sfogliando assorta un libro, uno dei tanti contenuti nella biblioteca dello studio. Non riesco a scorgere il tuo viso perché ancora non lo conosco. Mi piace però raffigurarlo con la fantasia. Sul tavolino di cristallo posto di fronte al divano arde una candela profumata. Io resto seduto sul tappeto davanti al fuoco, e conservo nel cuore il desiderio di sentire ancora la tua voce. Ci sono geometrie, sintonie, armonie, di cui non so nulla ma che tu conosci bene. Raccontamele, ti prego. O forse no, è uno scherzo della mia immaginazione che proietta su te il proprio stupore.
Dall’ampia vetrata che dà sul giardino emerge una splendente luna piena. La quiete di questo luogo silenzioso è spezzata appena dal fruscio delle foglie. Fa fresco qui fuori. Mi volto, e tu appari al mio fianco. Sorridi, mi prendi la mano, complice.
Confesso che, talvolta, queste tracce tenui che conducono a te mi turbano ancora. Si tratta di un timore dolce, che affascina e seduce. Eppure crea qualche impercettibile tumulto nell’animo. Vedo la mia immagine riflessa in uno specchio, arricchita di nuovi dettagli. E dietro le spalle scorgo la figura misteriosa di una donna che sorride. Chi sei, vorrei chiederle. Da dove nasce quest’affetto che provo per te – sapessi per quanto tempo l’ho trattenuto inespresso. E cos’è quel soffio lieve che mi arriva di rimando. Invece richiamo alla memoria le tue parole, che suggeriscono di limitarmi ad afferrare e ad ascoltare. E allora sorrido anch’io, lasciando che la vita scorra nella nostra amabile dimora.
(18 febbraio 2005)