(Pubblicato su Kataweb Forum Cinema il 7 aprile 2004)
E Gesù diceva: << Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno >>. (Lc. 22, 34)
Sulla figura di Gesù Cristo sono stati realizzati almeno un paio di centinaia di film, ed ogni epoca ha avuto il suo. Negli anni ’60 Hollywood produsse il classico kolossal epico-biblico zeppo di stereotipi: invece che La Più Grande Storia Mai Raccontata, pareva La Solita Storia Già Vista in La Tunica. Dal canto suo Pasolini creò un Gesù che coniugava il cattolicesimo col marxismo, e lo dedicò a Papa Giovanni XXIII. All’inizio dei ’70 ci fu il Jesus Christ Superstar fricchettone come i tempi anticonformisti richiedevano. Lo stringato Messia di Rossellini era brutto e basta. Zeffirelli fece un mieloso Gesù di Nazareth da compromesso storico. Alla fine degli ’80 Scorsese ci presentò un Cristo atipico, tentato e tormentato, umano troppo (?) umano. E noi ci becchiamo il Bravejesus che meritiamo.
Perché questa è un’epoca in cui le troppe immagini violente hanno ormai anestetizzato la sensibilità del pubblico. La quantità di dolore che ci viene mostrata dev’essere per forza spaventosa, impressionante oltre ogni limite di soglia e di sopportazione, affinché possa produrre un qualche effetto. E La Passione secondo Gibson va proprio in questa direzione. A botta calda, direi che The Passion of the Christ è un film iperrealista, troppo carico e senza misura. Le immagini sono indubbiamente brutali, ma il punto non è questo. Il punto è che Gibson, nello sbattercele in faccia con insistenza, dà prova di evidente compiacimento. Spinge la descrizione della passione e della morte di Cristo sino al parossismo della spettacolarizzazione della sofferenza. E la condisce con effettacci splatter da bassa macelleria che, invece di colpire ed emozionare, infastidiscono sino all’irritazione. Non sono dunque le immagini a disturbare, bensì il fondamentalismo che emana ogni fotogramma. Fondamentalismo che, ancora una volta, dimostra di essere un fenomeno preoccupante che interessa frange sempre meno minoritarie delle tre grandi religioni monoteistiche. E che costituisce il propellente dello scontro tra le civiltà che si sta materializzando in questo Medioevo di ritorno in cui ci tocca vivere.
In base alle interviste che ho letto, mi sono fatto l’idea che Gibson sia preda di un delirio mistico in cui si agitano generici sentimenti di colpa, di autoaccusa e d’indegnità. (La mano che pianta il chiodo nel palmo di Gesù è, infatti, la sua.) La conseguente necessità di espiare pare l’abbia portato infatti alla realizzazione del film. La componenente sadomaso quasi morbosa sciacquata nel grand guignol lascia comunque pensare che il regista abbia ben più di qualche problema psicologico – ma questa è solo un’illazione, perciò vado oltre. The Passion non aggiunge nulla a ciò che già sappiamo sulla figura di Gesù. Da questo punto di vista è un film per nulla indispensabile, se non del tutto inutile. Semplicemente ci illustra nei dettagli, e con gusto malsano, la riduzione del suo corpo ad un polpettone macilento. Proprio questa è l'impressione più forte che lascia allo spettatore: un corpo devastato da ferite, sangue, frustate. Ad un certo momento, in tutta questa irrealistica esagerazione, ho avuto la blasfema sensazione di trovarmi di fronte Rocky Balboa. La tesi di Gibson è: solo Dio poteva sopportare tutto quel dolore.
Ma si dimentica che Gesù era un uomo che fu crocifisso come molti altri uomini - la morte per crocifissione era considerata dai Romani quella più ignominiosa e veniva generalmente inflitta agli schiavi. E, soprattutto, che la violenza da lui subita si sublimò nel sacrificio che condusse alla risurrezione. La divinità di Cristo non risiede nella quantità di dolore che i suoi carnefici gli somministrarono: se egli è definito come il Salvatore, lo è per altri motivi – che il buon Mel pare clamorosamente ignorare. In questo modo egli finisce per mistificare completamente il messaggio evangelico, annegandolo in un mare di emoglobina sintetica. Dunque, per assurdo, la tanto sbandierata religiosità del Nostro arriva a sfiorare l’eresia. Anzi: fa venire più di qualche dubbio circa l'autenticità dei suoi convincimenti. Forse, prima di cominciare il film, gli avrebbe fatto bene un bel ripasso di catechismo. O, forse, è questione che riguarda la superficialità di certa cultura americana, la quale confonde con faciloneria fede e superstizione, crede ciecamente ai miracoli (anche quelli che si sarebbero verificati sul set di The Passion) e che mercifica ogni cosa compresa la religione.
Ad ogni modo, sono sicuro che il film sarà apprezzato dal Vaticano e dai credenti più ortodossi, dai puritani ultraconservatori, dalla stampa cattolica e paracattolica, da Baget Bozzo e dalla Fallaci. I ciellini ne andranno matti e i patiti dell’horror non resteranno delusi. Al contrario, decreteranno pollice verso i cattolici non conformisti, i critici laici ed i liberi pensatori che lo giudicheranno eccessivo, i biblisti perché l’integrità dei vangeli non è rispettata, gli agnostici che troveranno valide ragioni per continuare a non credere, e ovviamente anche gli spiriti impressionabili i quali sverranno al primo spruzzo ematico. Sono tuttavia convinto che Bravejesus, nonostante il peso del battage pubblicitario stile Mercanti del Tempio, lascerà il tempo che ha trovato. Non convertirà nessuno, e nemmeno ci esorterà ad essere dei cristiani migliori. D’altro canto, per quanto brutto, è solo un film. Per giunta, uno di quelli che la gente dimentica presto.
La Passione di Cristo (The Passion of the Christ) di Mel Gibson, con Jim Caviezel, Maia Morgenstern, Monica Bellucci (USA-Italia 2003, 126')
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