La scorsa estate, un amico mi prestò la videocassetta di Johan Cruijff - Il profeta del gol, un documentario curato da Sandro Ciotti che ritrae il fuoriclasse olandese nel momento di massima gloria. Poco dopo, mentre riordinavo la soffitta, mi sono ritrovato tra le mani il mitico album Panini dei Mondiali di Calcio 1974, che davo oramai per disperso. Non so se va ancora di moda raccogliere le figurine dei calciatori, però, nei ruggenti anni ’70, era un must. Le aule delle scuole elementari risuonavano negli intervalli di “celo, celo” e “manca” – quest’ultima affermazione rigorosamente espressa con tono di voce fantozzesco. E poi si giocava “a figu”. Io perdevo quasi sempre, perciò facevo altrettanto sovente rifornimento dal giornalaio, suscitando il disappunto di mia mamma (sebbene un pacchetto costasse appena 25 lire).
Mi rendo conto che, a qualcuno di voi, queste storielle faranno lo stesso effetto dei racconti di guerra di mio nonno. Non mi offenderò se adesso chiuderete il thread e andrete a farvi un giro. Sappiate però che anche per voi scoccherà il momento in cui tutto si colorerà di ricordi. Ad ogni modo, c’è stato un calcio prima del 1974 e un altro dopo. I Mondiali disputatisi quell’anno nella Germania Ovest rappresentarono la linea di confine. La finale di Monaco arrise al pragmatismo della squadra di Beckenbauer, ma la vincitrice morale fu la romantica e spericolata Olanda di Cruijff.
Non che fino allora il gioco fosse brutto, dicevano quelli che nel ‘74 erano più vecchi di me (ai tempi ero appena un bimbo e la memoria una tabula rasa). Appariva soltanto più lento e macchinoso, basato com’era sulla giocata leziosa del campione di turno, mentre i compagni stavano a guardare e gli avversari aspettavano immobili. Con Cruijff il gioco cambiò. Schemi ampi e veloci, tutti ad attaccare e a difendere, in un movimento continuo per il campo, anche senza palla. E lui ad assumersi la regia, impostando l’azione, inventando per i compagni, rifinendo con il gol. Era il calcio totale, che rompeva con le tattiche rigide del passato, che precorreva la zona quando la parola neppure era stata inventata. Io ero appena un bambino, dicevo, ma li ricordo bene quei Mondiali (i miei primi Mondiali) che si disputarono tra i mesi di giugno e luglio.
Come sempre succede quando l’Italia pensa in grande, finì a pallate in faccia. Nonostante fossimo una delle squadre candidate al titolo, ci cacciarono di brutto al primo turno. Zoff era imbattuto da 1000 e passa minuti (poiché solo da pochi mesi seguivo il calcio, per me era come lo fosse dalla nascita dell’universo) e Riva rappresentava il cannoniere per eccellenza; la difesa sembrava insuperabile ed il centrocampo granitico. Invece, già nella prima partita contro Haiti rasentammo il disastro. Dopo un primo tempo imbarazzante, chiuso sullo 0 a 0, all’inizio della ripresa il centravanti avversario fece fuori in velocità la difesa ed il record di Zoff. Calò un silenzio agghiacciante. Subito dopo, al momento del cambio con Anastasi, Chinaglia investì Valcareggi con un vaffa plateale. Ma lo stesso Anastasi, Rivera e Mazzola rimediarono, se non al gioco, almeno al risultato. Pareggiammo stentatamente la partita successiva con l’Argentina, e nella sfida decisiva la Polonia di Lato e Deyna ci diede la batosta: 2-1, rete di Capello, e tutti a casa. Peggio che ai Mondiali nippocoreani del 2002.
Altra musica l’Olanda. Se i nostri terzini non uscivano dall’area, lo stopper si francobollava al centravanti avversario e gli attaccanti non tornavano, gli Orange avevano ribaltato gli schemi e sgretolato il sistema. Il portiere Jongbloed era una specie di libero, il terzino sinistro Krol faceva l’ala, a centrocampo Neeskens pareva avesse sette polmoni, e, davanti, Cruijff ispirava prodezze micidiali. Sono pochi i campioni e le squadre che, seppure sconfitti, sopravvivono alla memoria. Ci riuscì quell’Olanda dai capelli lunghi e dai barboni biblici. Ci riuscì Johan Cruijff, il profeta del gol.
Come ogni sogno, quella bella storia durò poco. Dopo la sconfitta di Monaco, molti di quei magnifici giocatori si fecero pedatori di ventura nei vari club europei e pian piano si appesantirono. Cruijff, che si era già accasato a Barcellona, giocò sino alla trentina e poi, oramai spremuto, smise. Decise allora di cominciare la carriera di allenatore, prima nei blaugrana, quindi con l’Olanda, ma non riuscì mai ad ottenere risultati clamorosi. Seri problemi cardiaci lo costrinsero infine a sedersi dietro una scrivania e stop. Il figlio Jordi non ne ha raccolto il testimone: per evitare paragoni imbarazzanti si è fatto stampare sulla maglietta solo il nome, omettendo l’ingombrante cognome. Ora credo stia in Spagna a consumare scarpette bullonate in perfetto anonimato. Dopo Cruijff, anche la rinnovata Olanda passò qualche anno mediocre, salvo riscattarsi ai Mondiali argentini del 1978 in cui terminò seconda (eliminando senza merito la Giovane Italia di Cabrini e Paolo Rossi). Poi un decennale declino, sino all’esplosione di Gullit, Van Basten e Rijkaard, i quali trasformarono finalmente gli Arancioni in una squadra che sapeva anche vincere. Accadde agli Europei del 1988. In Germania, com’era giusto.
L’Album Panini è ritornato in soffitta insieme ai miei ricordi, e ho restituito la videocassetta al legittimo proprietario. Non posso però smettere di pensare che, nel 1974, il torbido connubio tra calcio e affari era ben di là da venire. E non aveva ancora inquinato la passione che spinge i tifosi a delirare per ventidue giocatori dietro ad un pallone.
Direte che la mia è la classica nostalgia dell’infanzia. Forse. Fatto sta che seguirò ben poco i nuovi Mondiali tedeschi, e non soltanto perché non ho sottoscritto l’abbonamento a Sky. La mia memoria si muove lungo altri percorsi, ben più seducenti della realtà che ci scorre sotto gli occhi. Che io, questa volta, ho deciso di chiudere.
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