Il taxista che compare all’uscita della stazione ferroviaria di Taormina-Giardini ha una di quelle facce da foto segnaletica che si vedono alla televisione in occasione di qualche retata dell’antimafia. Tarchiato, pancia trabordante dai pantaloni, naso schiacciato, guance flosce da bulldog, collo taurino, occhi liquidi e sguardo arcigno: pare un vecchio pugile borioso non ancora pago di cazzotti e di alcol. Alla richiesta di comunicare il proprio onorario per condurci a Letojanni – da queste parti i taxi sono sprovvisti di tassametro e la tariffa si applica secondo princìpi ignoti a noi continentali –, costui spara a muso duro la cifra di cinquantamila lire. Rosanna tiene botta e inizia a mercanteggiare con la sua logorrea ipnotica che tante volte mi ha procurato nausea ed attacchi di maldipancia. Si tratta solo di pochi chilometri, sostiene con un appiccicoso calore dialettico che vorrebbe essere persuasivo, e un piccolo sconto sarebbe d’uopo per due turisti venuti a visitare questa bella terra che eccetera eccetera. Ma il caterpillar, per nulla impressionato dalla risciacquata di panni, non ha la minimissima intenzione di cedere: se vi va bene, bene, altrimenti ve la fate a piedi. Più chiaro di così
A parte il fatto che il solleone del mezzodì sta cominciando a cuocermi le frattaglie, trascinare il pesante bagaglio lungo la statale non mi pare, tutto sommato, una trovata geniale. D’altronde, Rosanna ha la prestanza di un mollusco astenico e so già che spetterebbe e me il ruolo disagevole del portatore. No, buana. La verità è che mi sento piuttosto stracco per il lungo viaggio notturno e non vedo l’ora di una fresca doccia ristoratrice. Interrompo perciò la discussione che, nel frattempo, stava prendendo una piega indolente da suq: vada per cinquantamila lire, taglio corto, mentre Rosanna mi guarda sorpresa come se fossi uscito da una catacomba etrusca. Cinquantamila. Alla faccia di questo bestione truculento dalle mani come badili, che adesso caricano senza sforzo apparente le nostre valigie nel bagagliaio.
Il taxi è un antiquato mastodontico modello di Mercedes color blu notte, la polvere del tempo incrostata ovunque. Ha l’aspetto goffo e ingombrante di una signora obesa che, pur sforzandosi di apparire elegante, riesce soltanto ad essere patetica. La cosa buffa è che sembra sia stato costruito su misura per il proprietario, il quale, dopo averci fatto accomodare sui sedili posteriori, ricade al posto di guida emettendo un poderoso grugnito. Dalle viscere del macchinone fuoriesce un rombo catarroso che mette improvvisamente a tacere tutti i grilli del circondario. Sospiro. Finalmente, se dio vuole, si parte.
Lo sguardo cade subito nel vano portaoggetti, dove fa bella mostra di sé un sacrocuoredigesù. Ne traggo subitaneo motivo di conforto. Per un attimo mi vedo questo molosso dall’aria macellaia inginocchiato all’altare, le mani giunte, gli occhi giaculanti verso l’alto, illuminato da un barlume di pia devozione. A questo punto, manca soltanto l’adesivo con il classico vai piano papino per completare un quadretto rassicurante che, dieci minuti fa, non mi sarei mai figurato. In effetti non c’è. Però un padrepio incollato al cruscotto ammonisce prudenza con un gesto di benedizione che pare una minaccia. E mi metto definitivamente l’animo in pace.
Intanto il bestione, con fare burbero da vecchio lupo di mare, illustra a Rosanna la bellezza dei luoghi. I quali, ovviamente, non sono più quelli di un tempo, quando lui era giovane e i turisti non invadevano l’isola come cavallette. Che fa, allude?, penso tra me. Ma, come se mi avesse letto nel pensiero, corregge subito il tiro dichiarando che è comunque bello avere tanti ospiti che vengono da lontano ad ammirare questa terra. E voi da dove venite, chiede a Rosanna: da Genova? Stavolta allude, oh sì che allude. Le modalità con cui si è svolta la contrattazione l’hanno chiaramente indispettito. Ma io non gliela lascio passare: da Torino, vicino a Genova. Eh sì, molto vicino, fa lui, e si becca come da copione l’ultima battuta.
Oltre alla battuta e al prezzo esoso della corsa, il marrano ci gioca un altro tiro birbone. Giunti a Letojanni, decide di sbarazzarsi di noi all’entrata secondaria dell’albergo, posta sul retro dell’edificio, assicurandoci che è sempre aperta. Questo, per evitare di percorrere la strada a senso unico sul lungomare che avrebbe richiesto un giro più ampio e tortuoso. Cosicché, scaricati bruscamente e senza tante cerimonie, ci ritroviamo perplessi di fronte ad un portone che, c’era da aspettarselo, pare chiuso da un secolo o forse due. Siamo allora costretti a trascinare per diverse centinaia di metri, sino all'ingresso principale, borse e valigie che paiono imbottite di piombo fuso. Approfitto del tragitto, condotto alla cadenza di una processione ferragostana, per attaccare a salmodiare una caterva di irripetibili improperi. Ovviamente in piemontese stretto.
(Luglio 1994)