(Antalya, agosto 2005)
<< Diciamo pure quel che ci pare, ma la cucina italiana è la migliore del mondo >>. L’omino con occhialini da gufo e baffetti ricurvi ha un tono categorico che non ammette repliche. Smontare certi stereotipi è una delle imprese più difficili che si possano compiere. << Sarà. Ma a me quella turca non dispiace per nulla. Anzi… >>, rispondo con la gravosa consapevolezza che i pantaloni stanno diventando giorno dopo giorno più stretti: << E poi, nutrirsi dei prodotti di questa terra significa assimilarla, farla propria, comprenderla >>. << Mah. Qui usano troppe spezie per i miei gusti >>, bofonchia l’omino, per nulla interessato alle argomentazioni antropologiche: << Ho provato gli spaghetti… terribili… scotti… e conditi con il ketchup! Con il ketchup, capisci? Li ho lasciati lì. Che se li mangino loro… >>. << D’accordo. Però, quando si viaggia all’estero, bisognerebbe assaggiare il cibo locale. E dimenticare la pasta fino a quando non si torna a casa. Per quanto mi riguarda, non ne sento neppure la mancanza >>.
L’omino si barcamena tra i tavoli del buffet, il piatto mezzo vuoto, lo sguardo che pencola diffidente sui vassoi, un’espressione perplessa tra la delusione e il disgusto. Gli faccio un cenno di saluto mentre prendo del kebap e delle frittelle al miele che emanano un profumo delizioso. Ma lui neppure mi degna. Sta puntando sconsolato il vassoio di penne scotte al ketchup. Ma vai, va’…