Nell’elegante buvette dell’Auditorium, la cerimonia finale della Festa del Cinema volgeva oramai alla conclusione. Il bel mondo si lisciava sfacciatamente le penne tra caviale e champagne, occupatissimo in risatine e futilità assortite. James Pim se ne stava invece a far tappezzeria in un angolo solitario. Indossava un vecchio tight stazzonato col quale aveva preso la più colossale fregatura della sua vita. Ma quella era una faccenda di cui non parlava sovente, almeno quando era sobrio.
Senza dare nell’occhio cominciò a girellare, poi repentinamente si diresse alle spalle di un uomo quasi calvo, la pancetta e un sigaro in mano. “Mr Connery, I suppose…” Sean Connery, perché di lui si trattava, si voltò e il sorriso che aveva stampato in faccia gli si paralizzò davanti alla canna di una trentotto. Fu un attimo. Pim lo afferrò con forza portandogli il braccio dietro la schiena e si fece scudo con lui. “Fermi tutti, questo qui viene con me”. Colti di sorpresa, i convitati ammutolirono, le bocche piene, i bicchieri a mezz’asta. Fu il sindaco Veltroni a rompere gli indugi e, con modi ecumenici, cominciò a biascicare: “A’nvedi questo! Ahò, che stai a ffà. Er caubbòi? Nun ce provà. Volemose bbene, daje. Che ‘tte serve? Un carné de bijetti omaggio?...”. “Che par de palle!”, ringhiò Pim in romanesco. “Te piacciono le comiche? E allora pija questa, cinofilo”. Così dicendo acchiappò dal buffet una torta di panna e gliela scaraventò in faccia. Si levò un urlo: “È una spia di Cacciari! Diamogli addosso!”.
Furono subito botte da orbi. Qualcuno cercò di colpire Pim, ma lui si parò e Connery beccò al posto suo un cazzottone nello stomaco. Due uomini gli si gettarono addosso. Uno sferrò un gancio che Pim schivò, l’altro pigliò una gomitata nel muso, vacillò, e cadendo all’indietro rovesciò un tavolo che travolse altra gente. Pof! Sock! Smash! Tutto un darne e prenderne. De Niro cadde come una cassaforte dal decimo piano e gli piovve addosso un bacile di sangrìa. Harrison Ford afferrò una sedia ma sbagliò la mira e prese in pieno Richard Gere. “Eccomi, per la miseria”, schiamazzò paonazzo Monicelli prima di inciampare nell’abito a strascico di Nicole Kidman. La Bellucci venne schiacciata contro un muro e una tetta le esplose. Nel parapiglia generale, a Connery sfuggì la dentiera che finì sfracellata sotto le scarpe del Mereghetti, grosse come il suo dizionario. “Ma che caaa…”, imprecò cercando di sfuggire alla presa di Pim. “Fermo, marrano. Tu sei il mio ostaggio. Se ti rivogliono tutto intero devono consegnarmi Emma”.
La sala era diventata un macello dove nessuno oramai poteva più mettere ordine. La gente correva di qua e di là cercando l’uscita, rovesciando poltrone e tutto quello che si trovava davanti. Ad un certo punto spuntò dalla mischia Loulou travestita da podista. “È inutile che vai in brodo di giuggiole, Pim, hai finito con le tue bravate” disse cercando di strangolarlo con il cavetto del cardiofrequenzimetro. Ma lui fu più veloce e la stecchì di botto con un cannolo alla crema da 8500 calorie. Allora si fece sotto Verdoux, che per stordirlo gli fece odorare uno dei suoi calzini. “Ah, vuoi la guerra chimica eh?”, reagì Pim, e gli mise sotto il naso una fetta di toma stagionata che puzzava come una mandria di buoi incontinenti. In quel momento comparve sulla scalinata Erika brandendo una gigantesca katana, ma la lama si piantò nella moquette e lei franò stesa tirata lungo i gradini. La scena piacque molto a Tarantino che la scritturò immediatamente per il remake di un remake di un film taiwanese che nessuno aveva mai visto.
All'improvviso si spensero le luci, e in fondo alla sala si aprì un sipario. La colluttazione cessò all’istante e tutti guardarono in direzione della bellissima donna bionda che, illuminata da un riflettore, stava lentamente avanzando. Indossava una seducente mise bianca di raso e, sotto la veletta, gli occhi le brillavano come perle. “Ha le labbra e le unghie rosso lacca”, mormorò Pim, “Proprio come aveva promesso...”. “Ma che caaa…”, proruppe Connery che continuava a non capirci niente. “Sta zitto, gaglioffo, tu non mi servi più”, e gli restituì un paio di molari. Si avvicinò quindi alla donna che intanto si era fermata nel centro del locale. “Emma… ma non eri prigioniera…”. Lei gli sorrise, serafica: “È una lunga storia, Pim. Quel che conta è che ti ho ritrovato, anche se non sono riuscita a evitare che combinassi qualche disastro dei tuoi”.
Pim sentiva le budella sciogliersi come burro, tuttavia rimase sufficientemente vigile. “Seguimi!”, esclamò prendendola per mano, e insieme cominciarono a correre seguendo la lunga passatoia rossa, inquadrati da decine di telecamere. Giunti nel piazzale davanti all’auditorium videro un autobus con il motore acceso. “Daje, che mo’ ce lo prennemo”, la incitò. Salirono proprio mentre il mezzo stava partendo, quindi lui si sedette e lei gli si mise sulle ginocchia. “Ma che razza di trama è mai questa”, si chiese perplesso. “Boh”, rispose Emma, “’sta sceneggiatura a me me pare monnezza, ma, ahò, a’nvedi che gnente gnente...”. Quando scesero dall’autobus, si accorsero che la notte era umida e fresca. “Ti porto in un posto tranquillo dove potremo mangiare qualcosa”, disse Pim.
Emma cominciò a sognare, ma smise subito quando lo vide fermarsi davanti ad un chinese takeaway. “Ma che caaa…” “Mia cara, a noi agenti segreti hanno tagliato i fondi e questo è tutto ciò che posso permettermi. Due porzioni di riso alla cantonese e una birretta”, ordinò alla cameriera. “E mi dia anche due forchette di plastica”. “Dei bicchieri di carta no?”, sospirò lei con tono affranto. “Ah già, e due bicchieri di carta”. Pim pagò, prese la sacchetta con le cibarie e le propose: “Vuoi salire da me?”. “Pensavo che me invitavi a magnà ‘sta robba sotto un ponte”, rispose lei. Poi lo guardò sgomenta. “Che, per caso stai sotto un ponte? No, perché a me me toccano sempre certi òmini… ce ne stava persino uno che me voleva spalmà de cioccolato…”. Pim restò serio: “Senti, signora Emma. So sparare, pedinare una persona che cammina all’indietro, entrare in una stanza dove mi aspettano guai. Questo è il mio mestiere, sporco lurido fin che vuoi. Però la mia vita è un’altra cosa, c’è una sola persona che la conosce e quella sei tu”. L’appartamento era piccolo, ma arredato con gusto. Emma si guardò intorno stupefatta, sentendo che le calzava addosso come un guanto. Pim la fece accomodare sul divano e, alla luce languida di un abat-jour, cenarono seduti accanto, reggendo a turno la vaschetta in alluminio del riso. Al termine del frugale pasto, le preparò un Martini e mise su un vecchio brano jazz.
“Sono stanco, Emma”, ammise con voce calma osservando in controluce il bicchiere. “Stanco di questo continuo girare da un posto all’altro. Voglio concedermi una tregua, senza pensare a cosa succederà dopo”, e lo disse come se stesse aspettando. “Pim, la tua casa è graziosa, ma si vede che manca una presenza… Sai, penso che avresti bisogno di una donna”. “Non hai tutti i torti. E pure di un buon avvocato”. “Beh, se è solo per questo...”. Lui sorrise come aveva dimenticato di saper fare, lei si avvicinò e gli gettò le braccia al collo, socchiudendo gli occhi. “Vorrei rapirti, Pim”. “Ti consiglio di farlo, baby. Nessuno pagherà mai il riscatto”.
(3, fine)
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