La pagina bianca mi fissa come sempre silenziosa e indecifrabile. Ancora una volta devo tentare di indovinarne i segreti. Che cosa vuoi dirmi oggi? Prendo in mano una matita e la osservo. La punta è ben temperata, come piace a me. Potrei utilizzare la penna stilografica – inchiostro nero, scrittura perfetta. Oppure, meglio, il consueto programma per pc. Invece mi va di sentir frusciare la grafite sulla carta liscia della mia agenda. È un’antica abitudine, che conservo sin dall’adolescenza. Questione di comodità: in caso di errore, di ripensamento, un colpo di gomma per cancellare e via. Proprio ciò che vorrei fare con certe tracce della mia vita.
Intreccio le dita, appoggio la mina sulla pagina. Il polso comincia ad ondeggiare da sinistra verso destra, imprimendo sul foglio una pressione precisa. Ricama linee che si drizzano sinuose per poi ricadere a picco subito dopo. I pensieri assumono lentamente la forma convenzionale di lettere e quindi di parole, che si allungano sino all’a capo per riprendere il percorso una riga più in basso. È bello vederli ordinarsi così come hanno preso forma nella mente, con i segni d’interpunzione praticamente incorporati.
Oggi scrivo per me. Per il gusto di farlo, per il piacere che dà questa fuga minuta dal mondo. Quando tutte le emozioni avranno trovato un approdo sicuro, chiuderò la pagina non più bianca cui le ho ancorate e riporrò la matita con la punta oramai consumata. Solo allora mi sentirò bene.