La periferia fa sempre una strana impressione. Si è lì, sulla soglia, non si sa se ci si trova poco dentro o poco fuori da quel margine apparente che circoscrive la città. Ha un’anima sottile: è un luogo che sembra di conoscere, e che invece si trasforma sotto gli occhi. La piazza appena riasfaltata è adesso trafficata, i nuovi parcheggi a pagamento sono tutti occupati. Il bar però fa un ottimo cappuccino. La gente entra, si siede ai tavoli, ordina qualcosa. Di fronte a me una coppia d’innamorati che flirta, un gruppo di studenti con gli zainetti in terra, una donna sola che tiene un libro aperto tra le dita.
Vederla di nuovo mi sembra come entrare in una stanza chiusa a chiave da secoli. Appare diversa, più piccola. In realtà sono io ad essere cambiato, ad aver mutato la percezione di lei. È il mio sguardo, distaccato, più critico. Sì, è passato un sacco di tempo. Anche un anno può essere un sacco di tempo, no? Chissà se credi che io abbia ancora bisogno di te, o cosa. Se proprio vuoi saperlo, comunque, non sono intenzionato a riaprire il caso. Lei si atteggia a writer, di quelli tipo finto freak che bazzicano i concorsi letterari. Fa la carina, ma scannerebbe sua madre per una bella frase. Ricordo che alcune me le rubò di peso. A dirla tutta, sottrasse anche diversi pezzi della mia vita, utilizzandoli come patchwork per i suoi racconti. Me la presi solo perché si rifiutò di riconoscere il prestito che le avevo fatto. E poi perché non me li restituì più. Per plagiare ci vuole disinvoltura, lei ne possiede quanto basta.
Immergo gli occhi in un tappeto fitto di espressioni eleganti, segni d’interpunzione sistemati in modo appropriato, sequenze ordinate, pause lunghe come un respiro. Penso a com’è mutato il suo stile. Non più un fiume dal corso tumultuoso, cascate gonfie di parole e gorghi sintattici, un caleidoscopio in continuo movimento dove la varietà dei colori variava con il punto di vista. Non più la ragazza incostante che io conoscevo, dispersa tra infatuazioni parossistiche, storiacce con uomini impresentabili, improperi e voltafaccia improvvisi. Della sua sessualità istintiva e disordinata non c’era più alcuna traccia. Aveva levigato, ripulito e sterilizzato tutto fin negli angoli più nascosti. E trasfigurato il suo scrivere in un’accademia di belle arti, in un centro benessere, in un hôtel cinque stelle. Era un involucro elegante, sofisticato, provvisto di un freddo codice d’accesso che rimandava a una performance da premio letterario. Perfetto. Troppo perfetto.
Sollevo lo sguardo. Mi sento un cucciolo di tigre che gioca con la preda e non gli va di finirla. Cosa ti attendi da me. Che ti dica mi piace come scrivi. Dovrei forse dirlo? No, non mi piace. Non mi piace più. Come non mi piaci più tu. Ti preferivo quando balbettavi frasi frammentate e sconnesse come un paesaggio urbano, ma che rappresentavano cibo nutriente per la tua fame d’amore. Quando storpiavi le parole per farne uno strumento che suonasse. Quando negli errori d’ortografia si riconosceva il tuo disorientamento itinerante. Eppure dovresti sapere che le basi della scrittura sono sempre le stesse: soggetto, predicato, complemento. Punto. Un codice fisso, immutabile, eterno. Il resto è ornamento di facciata, artificio di maniera, finzione, raggiro. Geometria e meticolosità non suggeriscono nulla. Dove stanno la sofferenza, il dolore, il sangue? Ti sei dimenticata cosa significa rimuovere attraverso la scrittura il tormento che dà un incubo? Ecco cosa dovrei dirle e che invece taccio. Il mio giudizio sarebbe inquinato da troppo vissuto per essere equanime. Impacchetto i pensieri, m’infilo la giacca, le bacio le guance e lascio campo libero. Fuori, l’aria pungente preannuncia la neve.