Correva l’anno 1976. L’anno in cui la Juve si fece fregare lo scudetto dal Toro, dell’ennesimo governo Andreotti, delle Olimpiadi di Montreal e dell’Oscar a Rocky. Io frequentavo la scuola elementare, collezionavo giornalini di Topolino, mio padre aveva appena acquistato una Fiat 128 e sugli schermi televisivi, una domenica sera, apparve Sandokan.
Già, Sandokan. Lo sceneggiato tv andò in onda sul Primo Programma per sei puntate, ottenendo uno strepitoso successo popolare. Il protagonista, l’eroe eponimo, era interpretato da Kabir Bedi, un attore indiano poco più che ventenne. Barbuto, capellone, fisicamente imponente, pareva una sorta di Che redivivo (avrei certamente detto così, se a quell’epoca avessi saputo chi era Che Guevara). Il resto del cast comprendeva attori di fama internazionale: c’era Philippe Leroy nei panni dell’astuto Yanez, Adolfo Celi in quelli del cattivissimo Lord Brooke. E c’era la bellissima Perla di Labuan, Lady Marianna, interpretata da Carole André. I famigerati fratelli De Angelis, corruttori dei gusti musicali della gioventù d'allora, avevano composto per l’occasione una sigla che riecheggiò ben presto per ogni dove: Sandoka-an! Sandoka-an! / Giallo è il sole e la forza mi dà / Sandoka-an! Sandoka-an! / Dammi forza e ogni giorno ogni notte il coraggio verrà…
Sin dalla prima puntata la storia si mostrò avvincente, spettacolare, piena di colpi di scena. Così come il genere imponeva e come il pubblico si aspettava, c’era proprio tutto: esotismo e avventura, amicizie virili e duelli all’ultimo sangue, agguati e inseguimenti, amore e morte. La sequenza più memorabile era sicuramente quella in cui Sandokan, con un balzo (è il caso di dirlo) felino, squartava in volo la pancia di una tigre. Tutti noi bambini rimanemmo affascinati da quelle avventure di terra e di mare, e ci sentimmo improvvisamente pervasi da uno spirito irrequieto che mai avevamo provato prima. Ma l'entusiasmo arrivò allo zenit quando, un giorno d’inizio primavera, qualcuno annunciò che all’uscita da scuola avremmo potuto incontrare Kabir Bedi.
Digressione salgariana – un po’ meno prolissa. I miei piccoli lettori devono sapere che l’edificio scolastico che ai tempi frequentavo si trova ad un tiro di moschetto dalla casa di Corso Casale 205 dove Emilio Salgàri abitò negli ultimi anni di vita, quando da Verona si trasferì a Torino. E proprio da quella casa se ne uscì, un mattino d’autunno del 1911, per andare a togliersi la vita in Val San Martino. Ebbene, Kabir Bedi era stato invitato a visitare il luogo in cui aveva vissuto l’autore del personaggio di Sandokan. Girava voce che ad organizzare la faccenda era stato il sindaco comunista Diego Novelli, il quale, invece di mangiare i bambini, aveva deciso di traviarli presentando loro un eroe rivoluzionario in carne e ossa.
Come fu come non fu, quel giorno tutti quanti ci dirigemmo al luogo convenuto festanti e vocianti, accompagnati con tollerante pazienza delle nostre mamme. Poteva essere mezzogiorno, o giù di lì. Ricordo che di fronte all’ingresso di Corso Casale, sotto l’epigrafe dedicata a Salgàri, c’era tantissima gente in attesa. Così tanta che i vigili avevano chiuso al traffico quel tratto di strada generalmente piuttosto frequentato. La confusione era incredibile. Chiasso, spintoni, schiamazzi. Non stavamo più nella pelle. Io mi guardavo intorno, trepidante come un Tremal Naik in sedicesimo, cercando di capire da quale parte sarebbe arrivato Sandokan. Avrebbe attraccato alle sponde del Po con il suo praho? Oppure sarebbe giunto su di un cavallo bianco lanciato al galoppo per il lungofiume?
Ad un certo momento, l’epifania dell’eroe. Eccolo, eccolo! È qui, è qui! Kabir Bedi si materializzò a pochi passi da me come d’incanto, quasi fosse piombato giù dal nulla. Ma d’altra parte non era solito sorprendere così i nemici di Sarawak? Lo ricordo vestito di scuro, altissimo, statuario, con capelli lunghi, barba e baffi d’ordinanza. Intorno a lui, i poliziotti della scorta somigliavano a minuscoli insignificanti thugs. Sorridendo, fece al nostro indirizzo qualche cenno con la mano – gigantesca anch’essa. Poi, fendendo la folla, si diresse verso il modesto portoncino d’ingresso che varcò chinando il capo per non sbattere contro lo stipite. Passò un po’ di tempo. Sembrava già che tutto fosse finito, quando, all’improvviso, Kabir Bedi uscì sul balconcino di ferro battuto del piano nobile e, con fierezza solenne, alzò le braccia al cielo. Mamma mia… Scoppiammo tutti a urlare, ad agitarci, a dimenarci, accalcandoci il più possibile sotto la finestra. Sandokan! Sandokan! Siamo qui! Siamo qui! Siamo i tigrotti di Mompracem! Sguainiamo il kris! Vogliamo combattere al tuo fianco! Portaci via con te! Vogliamo salire sul tuo praho! Vogliamo solcare come pirati i mari della Sonda! E che una ragazza dalla pelle ambrata ci rapisca per sempre il cuore…
Invece no. Kabir Bedi rientrò dopo qualche minuto e scomparve definitivamente dalle nostre vite. Nessuno di noi lo rivide più. E so per certo che nessuno si arruolò tra le Tigri della Malesia. Forse ci mise lo zampino la dea Kalì, chi lo sa. Fatto sta che diventammo grandi, e la realtà c’ingoiò come avrebbe fatto una pianta carnivora della giungla nera. Qualcuno finì con l’aprire una carrozzeria, qualcuno un negozio di alimentari, qualcun altro entrò in banca e mise su pancia. I più avventurosi arrivarono a diventare ingegneri o medici: ma furono pochi, e nemmeno troppo felici. La maggior parte si adeguò ad una vita comoda e senza scossoni, fatta di mutui trentennali e ferie in una pensioncina di Loano con famigliola al seguito. Di Tigri, appunto, neanche una. Anzi: molti anni più tardi chiuse persino il vicino giardino zoologico, e quei pochi felini spelacchiati e impigriti che vi dimoravano da decenni finirono impagliati in qualche museo.
Tempo dopo, svanita l’eccitazione del momento, un compagno di classe mi propose di scambiare l’autografo che, a suo dire, gli aveva fatto Kabir Bedi, con un congruo numero di figurine Panini. Ben sapendo che millantava, contrattai. E alla fine riuscii a spuntare un baratto con l’autografo di Dino Zoff. Falso pure quello…
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