Gerusalemme. Ci si fa una prima idea guardandola dall’alto del Monte degli Ulivi, Har-Ha Zetim. Appare come un groviglio inestricabile di abitazioni, di moschee, di chiese, di sinagoghe, addossate le une alle altre e circondate dalle imponenti mura di Solimano. La pietra chiara con cui è costruita brilla al sole di queste luminose giornate di fine dicembre. Le maniche della camicia arrotolate, gli occhi socchiusi, la videocamera in stand-by, assaporo l’atmosfera primaverile che fiorisce inaspettata nell’aria limpida.
Non è facile per un europeo farsi pellegrino e incontrare Gerusalemme. Anzitutto, perché rappresenta il simbolo della paura che suscita il conflitto tra israeliani e palestinesi. Sei matto, mi hanno detto in tanti: le bombe sugli autobus, i check point, il muro. E io a tranquillizzare, a rassicurare: abbiamo accompagnatori esperti, ci muoveremo sempre in gruppo, eviteremo i locali pubblici. Quindi, perché è una città effettivamente complicata. È un mescolanza di genti e di culture che si sono combattute per millenni come in nessun altro luogo della terra e che ora provano a convivere, sia pure con difficoltà.
La città vecchia, il cuore di Gerusalemme, è un concentrato bizzarro di meraviglie: assediata, distrutta e ricostruita decine di volte, si presenta come una città che all’interno ne contiene numerose altre, in un affascinante gioco di scatole cinesi. Si divide inoltre in quattro quartieri, abitati dalle comunità cristiane, armene, ebraiche e musulmane, nei quali il contrasto di stili architettonici e di usanze appare l’elemento dominante. La parte nuova, quella moderna al di fuori delle mura, si estende ormai fino a Betlemme e a Ramallah. I lunghi viali alberati, il traffico caotico, gli uffici, i ristoranti, i centri commerciali e gli alberghi, la rendono invece simile a una qualunque altra metropoli.
Per cominciare a capire Gerusalemme occorre entrare per una delle sette porte sistemate nella cinta muraria. È questa la Città Santa, in cui si trovano i luoghi sacri venerati delle tre religioni monoteistiche: il Muro occidentale, unico resto del Tempio ebraico, la moschea el-Aqsa, onorata dai musulmani, e la basilica del Santo Sepolcro, il sito della morte e della risurrezione di Gesù. Sia pure annacquata dalla materialità della vita quotidiana, si può percepire una spiritualità diffusa. Inseriti nel trambusto, tra lo schiamazzo della folla, si odono continui i richiami alla preghiera che giungono dall’alto dei minareti, lo scampanio delle chiese cristiane e il mormorio dei rabbini che pregano giorno e notte davanti al Muro.
Avventurarsi nelle stradine del suq, il mercato arabo, è un’esperienza unica. Ci si fa largo in un dedalo di viuzze sconnesse e parzialmente coperte, intrise di aromi speziati, di colori vivaci, di sapori inediti. A destra e a sinistra, un’infilata di botteghe e di negozietti propone la propria merce. I mercanti vendono di tutto: dalla verdura coltivata nell’orto alle stoffe, dai prodotti di pasticceria alle ceramiche. Si trova ovunque paccottiglia, ma non mancano tappeti e gioielli. C’è solo l’imbarazzo della scelta. In ogni caso, chi vuole comprare non si può sottrarre al rituale della contrattazione. Il divertimento consiste nel fare il prezzo: alla proposta del venditore si replica con un no secco e si stabilisce una controfferta. Non deve essere troppo bassa, però, si darebbe l’impressione di voler svalutare l’oggetto e ciò susciterebbe l’immediata reazione del negoziante, il quale simulerebbe (o forse no) un’offesa imperdonabile. Da qui in poi è tutto un tira e molla: ci si allontana ostentando indifferenza, quindi ci si riavvicina con una nuova proposta, senza cedere subito alle insistenze del furbo levantino. Dopo estenuanti trattative si arriva comunque e sempre ad un accordo. Salvo accorgersi che, dieci metri oltre, lo stesso oggetto costa la metà…
Se il quartiere armeno non presenta particolari caratteristiche, a parte un’atmosfera più composta, quello cristiano è attraversato dalla Via Dolorosa, che Cristo percorse portando la croce, lungo la quale si giunge fino alla basilica del Santo Sepolcro. Le continue trasformazioni cui è stata sottoposta nei secoli, hanno reso la chiesa piuttosto brutta. E anche la suddivisione in tre settori assegnati a francescani, greco-ortodossi e armeni (che si detestano in maniera nemmeno troppo cordiale) ha contribuito non poco a snaturarla. All’ingresso, dove si trova la Pietra dell’Unzione, gli ortodossi hanno di recente piazzato una parete fittizia con un mosaico a dir poco orripilante. E alle rimostranze dei francescani, hanno risposto: embé? È stato fatto a Faenza… L’Edicola del Santo Sepolcro, altra bruttura, è gestita con fare autoritario dagli stessi ortodossi che, terminato l’orario di visita, scacciano i pellegrini senza tante storie. La cosa più curiosa è che le funzioni religiose si svolgono negli stessi orari, in modo da produrre un disturbo reciproco. Poiché i greci-ortodossi officiano cantando con potenti voci baritonali, i francescani hanno introdotto alla chetichella, pezzo per pezzo, un organo. Adesso, durante la messa, la musica copre tutto con un frastuono indescrivibile. Compresi i flebili canti dei poveri monaci armeni. A complicare i rapporti, il terreno sul quale sorge la basilica è proprietà di una famiglia musulmana alla quale le tre confessioni pagano l’affitto. Ogni sera, alle diciassette, c’è una vera e propria cerimonia di chiusura che raduna molti curiosi: uno dei componenti della famiglia, seguendo un breve rituale, chiude il portone a chiave, se la mette in tasca, fa ciao ciao con la manina e se ne va. All’interno, però, è consuetudine che rimangano di guardia tre religiosi, i quali – immagino – si osservino in cagnesco tutta la notte.
Me’a She’arim, l’elegante quartiere ebraico, è stato ricostruito negli scorsi decenni ma conserva tracce di quasi tutta la storia di Gerusalemme. Dal cardo maximus, la strada principale costruita dai romani, alla spianata del Tempio. Ci passiamo il venerdì sera mentre i rabbini, con le loro palandrane nere e i cappelloni a larghe tese, ritornano dalla sinagoga e vanno a cenare insieme alle famiglie. Portano barbe fluenti e riccioli lunghissimi che non tagliano mai (perché nessuna lama deve toccare le tempie), santificano il riposo dello Shabbath (tanto da non chiudere neppure un cassetto o lavare l’insalata) e seguono rigidamente le norme della cucina Kosher. Inoltre non lavorano, ma passano la vita a pregare, a studiare la Torah ed i suoi commentari (vivono grazie ad un piccolo sussidio governativo) e a fare un sacco di figli. Si può dire che vivono fuori dal mondo e dal tempo. Tuttavia, tra i mandanti dell’assassinio di Rabin c’erano pure loro… Il Muro occidentale (comunemente, ma erroneamente, detto del Pianto) rappresenta il luogo simbolo per eccellenza dell’ebraismo, essendo l’ultimo vestigio del Tempio di Erode. La vasta area antistante è considerata una sinagoga a cielo aperto e comprende un settore maschile ed uno femminile. Poiché pare d’uopo presentarsi a Jahvè con il capo coperto, all’ingresso vengono distribuite delle kippah. Che però, essendo di cartone, stanno in equilibrio piuttosto precario e cadono spesso in terra, creando in noi Gentili non poco imbarazzo. Faccia al Muro, decine di rabbini pregano meticolosamente a bassa voce tenendo la Torah aperta tra le mani. E poiché la Legge impone che, durante le orazioni, nessun muscolo debba mai stare immobile, ripetono rapidi inchini col capo oppure ondeggiano continuamente il busto. L’atmosfera è rarefatta, quasi irreale.
Per salire sull’adiacente spianata delle moschee, che appartiene ai musulmani, si deve invece transitare attraverso un paio di controlli abbastanza severi. Il servizio d’ordine palestinese sembra piuttosto nervoso. D’altra parte gli ebrei ultraortodossi vorrebbero far saltare tutto in aria per ricostruire finalmente il Tempio, e quindi non c’è da stare allegri. Un militare, vedendo che siamo un gruppo, ci chiede da dove veniamo. Italia? Oh, Italia… Juventus! Ride, e noi con lui. L’atmosfera si scioglie, la perquisizione avviene ora in maniera più spiccia. Queste sono le uniche occasioni in cui riconosco che essere italiani comporta qualche vantaggio… Haram esh-Sheriff è il terzo luogo santo dell’Islam, su questo monte detto Moriah Maometto fu assiso in cielo. Di fatto è sacro per tutte e tre le religioni monoteiste, perché è qui che Dio chiamò Abramo a sacrificare Isacco. Tuttavia, invece di unire nel nome del comune progenitore, quest’area ha scatenato e scatena tuttora violenti dispute. Nonostante la Cupola della Roccia sia la moschea più appariscente, la cupola dorata è un dono di re Hussein di Giordania, la più importante è el-Aqsa, “la lontana”. Essendo la spianata un luogo sacro, bisogna indossare un abbigliamento consono e tenere un comportamento decoroso: non si parla ad alta voce, non si corre, non ci si può neanche tenere per mano. Alcune zone proibite a noi infedeli non sono segnalate, e io, immancabilmente, finisco in una di queste. La nostra guida ci mostra dove Sharon fece la sua passeggiata provocatoria: non fu molto coraggioso, in verità, fece appena qualche metro per ritornare quasi subito indietro. Ma il gesto, considerato dai musulmani un atto di prevaricazione (e lo era), bastò a scatenare la seconda Intifada e a seppellire per anni le speranze di pace.
Da quassù, da questo vasto spazio che domina una parte della città, si sperimenta realmente un senso di elevazione. L’aria, tagliente e profumata, ispira un senso di quiete che suona paradossale. Ma forse no, non è paradossale. Sono i conflitti ad esserlo, in questa città che richiama invece soltanto sentimenti di pace. Dicevo che non è semplice per un europeo incontrare Gerusalemme e cercare di capirla, sia pure sommariamente. Occorre anzitutto prestare ascolto rispettoso alle voci che riecheggiano lungo queste strade. E accettare che la realtà dell’Oriente sconvolga la gerarchia dei pensieri, abbandonando le redini dei pregiudizi, rimettendo in discussione certezze e valori. La comprensione richiede uno sforzo non indifferente di pazienza e lungimiranza. Ma è solo il primo passo, se si vuole acquisire una consapevolezza critica degli avvenimenti. Perché si scopre che qui la realtà non è mai una e unica, ma differente secondo la prospettiva in cui ci si pone.
(30 Dicembre 2004 – 3 Gennaio 2005)
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