Nel gennaio 1945 Primo Levi veniva liberato dal campo di concentramento di Auschwitz. Le vicissitudini del travagliato ritorno a Torino, dieci mesi e migliaia di chilometri tra imprevisti mutamenti di direzione e ritardi quasi inverosimili, si ritrovano nel libro La tregua. Un viaggio tortuoso e disperato, i tedeschi in fuga e i russi all’orizzonte, attraverso Polonia, Unione Sovietica, Romania, Ungheria, Slovacchia, Austria e Germania.
Sessanta anni dopo, Davide Ferrario e Marco Belpoliti ripercorrono le stesse strade con l'intento di rendere omaggio a un uomo di straordinaria ricchezza intellettuale e, simultaneamente, di documentare gli importanti cambiamenti politici e culturali avvenuti nel frattempo. La prima parte del film, quella che raccoglie le memorie dell’eredità comunista, è la migliore, intensa e lucida nel riferire il senso (anche contraddittorio) del passato attraverso le testimonianze della gente. Con il proseguire del cammino il respiro si fa più corto, lo sguardo superficiale e la narrazione si sfilaccia, come se, avvicinandosi la meta finale, l’interesse degli autori venisse meno. Chiude Mario Rigoni Stern recitando una poesia scrittagli dall’amico prima che morisse suicida, quasi un epigrafe per le generazioni future: “Non si sono lasciati impietrire dalla lenta nevicata dei giorni”.
Le intense parole di Levi (dette da Umberto Orsini) contrappuntano con effetto spesso straniante le immagini, girate in maniera fin troppo casuale e approssimativa. Forse anche questo scarto sta a mostrare il mutamento irreversibile dei tempi.
La strada di Levi di Davide Ferrario, Marco Belpoliti (Italia 2006, 92')