È il limite estremo dello spettacolo. Musicisti, cantanti, danzatori, giocolieri, saltimbanchi e funamboli, mimi, clown, illusionisti e mangiatori di fuoco. Il rischio dell’artista che si esibisce senza rete diviene metafora dell’eterno disequilibrio umano. All’inizio non c’è nulla: nessuna scenografia, nessun supporto, tranne qualche strumento essenziale. Un angolo spoglio di piazza fa da palcoscenico e il pubblico, che intanto si raduna in semicerchio, costituisce le pareti di un teatro immaginario. Un teatro vivente in continuo andirivieni, irregolare, curioso. Cosa si può esprimere, quali sono i gesti e le parole, quale musica o danza o gioco per stabilire una comunicazione con gente sempre nuova e diversa? Com’è possibile creare ogni volta, e di volta in volta, un evento in cui la schermaglia iniziale per catturare l’attenzione si trasformi in rapporto consensualmente amoroso?
Eppure accade. Ogni sera si ricreano misteriosi mondi provvisori nei quali la magia appare garbatamente tangibile, sudore e leggerezza trovano naturalmente un’armonia, come lo sgocciolio lento della pioggia, le nuvole nel cielo che si mescolano, il fluire delle correnti marine. E almeno per un istante riusciamo a scorgere nel nostro cuore qualche barlume di felicità.