Le Conquet, Bretagna, agosto 1999.
Facevo mentalmente il conto di quanti passi distava casa. Se un passo corrisponde a un metro scarso, pressappoco un milione e duecentomila. Un milione e duecentomila. A cosa si poteva paragonare un milione e duecentomila passi? Per esempio a settecentomila persone distese una dietro l’altra, oppure ad una fila di trecentomila autovetture di media cilindrata, oppure a diecimila campi da pallone, oppure… L’idea stessa di casa che quassù custodivo nella memoria era però del tutto vaga. In fondo, mi sentivo a casa anche sul filo di quella latitudine. Per la selvaggia bellezza del luogo che catturava i sensi, per la brusca ma sollecita ospitalità della gente, per la serenità che emanava il paese dove avrei trascorso la notte. E perché c’era lei al mio fianco.
Il fascino inconsueto dell’oceano rapì ancora l’attenzione. Un fronte d’onda di lunghezza incalcolabile iniziò a montare a qualche centinaio di metri dalla riva, poi s’innalzò come la schiena di un serpente marino, per ricadere fragoroso con una frustata sugli scogli. Subito dietro, un altro fronte s’incrociò alla risacca spegnendosi con un rumoroso risucchio. Il vento, che rimescolava così le acque, frizzava teso di spuma salmastra sul mio viso facendolo sfrigolare. Con il calar della sera la temperatura si era fatta più fresca, tuttavia non la percepivo come fastidiosa. Al contrario corroborava lo spirito di rinnovata energia, dopo un’intera giornata trascorsa a viaggiare lungo quelle coste sospese tra i flutti.
Mi voltai allora un poco di traverso e mi fermai ad osservarla. I lunghi capelli si scarmigliavano scompostamente come lingue di fiamma, guizzando rapidi sulle tempie e sugli occhi appena socchiusi. Cercai invano di ravviarli. La mia mano si posò poi delicata sulle sue guance lievemente arrossate e discese verso la nuca, sino a cingerle le spalle, avvicinandola a me. Sorrideva, con quel sorriso incerto e vagamente sognante di chi si è immerso così a fondo nei pensieri che ne riemerge a fatica, come da un sogno bellissimo. Quanto avrei voluto carpire i segreti che aleggiavano nel mistero di quel silenzio. Ma non osando varcare i cancelli dell'intimità, mi limitai a ricambiare il suo sguardo.
I gabbiani stridivano tutt’intorno, sbatacchiando rumorosamente le ali in un turbine bianco. Alcuni s’innalzavano leggeri nell’aria e s’involavano rapidissimi al largo; altri, invece, planavano sugli scogli in lente e studiate volute, dettate da geometrie del tutto sconosciute a noi bipedi terrestri. Guardai l’orologio. Erano ormai passate le nove di sera: eppure apparivamo ancora rischiarati da una luce azzurrina che rifletteva l’oceano, sormontata all’orizzonte da una stretta fascia rossastra. Il crepuscolo non voleva proprio saperne di divenire notte.
Immaginai allora che le tenebre non sarebbero scese fino a quando non avessimo lasciato quella punta di terra, che protrudeva come una lancia infilzata nelle acque. Finistère. Finis Terrae. Ultimo lembo d’Europa continentale proteso verso il nuovo mondo, l’altro mondo, l’Altrove. In quest’epoca di viaggi transoceanici potrebbe sembrare forse un’ingenuità. Eppure il pensiero che, lontanissima e invisibile, si distendeva l’America mi lasciò quasi senza respiro. Mi sentii come doveva forse sentirsi un viaggiatore d’altri tempi circondato dall’ignoto. Come Ulisse immobile dinnanzi le Colonne d’Ercole. Come Colombo appena levate le ancore da Palos. Di fronte rumoreggiava grave un’immensa distesa d’acqua, sconfinata, da annichilire la mente. Da essa ero però misteriosamente, irresistibilmente, attratto, preda di una fascinazione che inchiodava gli occhi alla linea del tramonto. Laggiù, dove il sole scompariva, si trovavano i confini del mondo. E io non potevo smettere di desiderarli.
Ultimi commenti