I giudizi (dei) critici rendono indigeribili le opere d’arte. Di questo già mi lamentavo ai tempi del liceo. Mi sentivo come un alpinista che, in procinto di scalare una montagna, veniva zavorrato con goffi vestimenti paludati. Conservo il ricordo molesto di una ponderosa analisi del testo riguardante Il gelsomino notturno di Pascoli. E di una dottissima ma insopportabile dissertazione a proposito di Il posto delle fragole, che mi fece detestare Bergman per almeno un decennio – finché, dimenticate del tutto quelle parole, lo rividi intendendone finalmente il significato.
Certo: possedere una chiave di lettura è indispensabile per la comprensione. Tuttavia esiste il rischio fondato di schiacciare, sotto il carico delle parole, il piacere che scaturisce dalla semplice fruizione dell’opera. E se qualche volta lasciassimo stare simbolismi e metafore, le solite discussioni su “cosa voleva dire l’Autore”, le immancabili interpretazioni psicoanalitiche? E se ci lasciassimo invece trasportare dalle suggestioni sensoriali, dalle emozioni personali?