Quando io mi posi come nitido specchio davanti a te, mi fissasti a lungo e vedesti la tua immagine. E dicesti << Ti amo >>. Ma in verità amavi in me te stessa. (K. Gibran)
Fu durante un caldo pomeriggio di maggio che capii che Lidia non mi amava più, mentre l’accompagnavo in centro a far spese. Lei cercava una camicetta rossa, stesso colore della fiammante Peugeot che i genitori le avrebbero regalato di lì a poco e alla quale si riferiva con malcelata soddisfazione. Tutta concentrata nello scopo fantasticava con volto acceso, il tono sopra le righe della donna moderna di certa pubblicità. Civettava, con l’aria precisa di chi si coglie capace di affascinare e sedurre l'intero universo maschile. Io la guardavo, perplesso. Mi teneva per mano, ma percepivo la sua inanimata e insolitamente fredda. L’altra invece gesticolava in modo frenetico, a testimoniare la tensione emotiva che la scuoteva come se avesse la febbre. Mi sentivo a disagio, deluso, irritato per quell’inedito atteggiamento da femme fatale che ostentava ormai da qualche mese. Parlava incessantemente di abiti e profumi, di mare e costumi. Ti piace quel bikini? E senza attendere risposta: quest’anno voglio proprio rinnovare il guardaroba estivo, comprare…
Io fingevo di ascoltare. Di momento in momento risultavo sempre più escluso da quei discorsi frivoli, e un rancore impotente calava greve sul mio capo accompagnato da una cefalea latente. Mi venne da considerare che, una volta, avrebbe fatto delle osservazioni maliziose sulle ridotte dimensioni dei costumi esposti nei negozi, così da stuzzicare la mia fantasia. Del tipo: sarei praticamente nuda, e se per caso ti sfuggisse qualche dettaglio potrei mostrartelo in cabina… Oppure avrebbe domandato curiosa che cosa intendevo acquistare per l’estate ormai imminente. Mi piaceresti molto con quei bermuda: ah, vedo già le ragazze di Alassio mangiarti con gli occhi… sono proprio gelosa… Quel giorno invece nulla. L’attenzione era polarizzata sulla propria immagine riflessa dallo specchio di narciso che l’attirava in ogni vetrina.
Intuivo con crescente disappunto che le serviva la mia adulatoria collaborazione per approvare il progetto di sé che andava perfezionando. Non ero che una comparsa nelle prove generali allestite in vista dello spettacolo di cui sarebbe stata, come sempre, primattrice. Mi ero spesso lamentato che, in certe situazioni mondane, venivo trattato alla pari di un cavalier servente. In più occasioni le avevo fatto stizzosamente notare che, alla presenza di estranei, la mia unica funzione sembrava essere quella del principe consorte. Quel giorno, invece, compresi che ero inevitabilmente destinato a uscire dalla scena. A quella rappresentazione di sé non avrei mai preso parte, perché, traspariva ormai evidente, nei suoi sfavillanti programmi ad occhi aperti io non esistevo più.
Se è vero che, sotto le luci della ribalta, la primadonna recita una parte che ne magnifica la personalità, è altresì vero che la spalla, confinata in un’aurea penombra, deve saper circoscrivere il proprio ruolo. Non è necessario che possieda un’identità precisa: basta che porga le battute nei modi e tempi prestabiliti, senza rubare troppo l’interesse del pubblico. E qualora non risponda più alle esigenze del copione, possa essere sostituita in modo pressoché inavvertibile. Da chiunque. Da chiunque, appunto. Da chiunque. Le lasciai improvvisamente la mano.
(Ottobre 1990)
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