I lenti non godono di buona fama. È facile sospettarli di scarsa volontà, di non impegnarsi mai abbastanza. Si preferiscono i tipi veloci, quelli che sanno svolgere i propri compiti con rapidità, bravissimi a recepire le indicazioni e ad eseguirle in un battibaleno. La loro vivacità emerge dall’intensità dello sguardo, dalla precisione dei pensieri, dalla destrezza manuale. L’argento vivo addosso, come si suole dire.
Quelle persone dovrebbero, in linea di principio, accumulare un bel po’ di tempo libero in cui potersi infine occupare di sé, senza più urgenza. Sembra invece che vivano in uno stato di continua e tesa apprensione. Sempre alla ricerca di qualche momento che li liberi dal logorio psicofisico dello stress, ma poi incapaci di trovarlo. Mi chiedo se sia sensato piegarsi ad uno stile ritenuto ormai inconvertibile. Non sarebbe meglio evitare di tutto quel gran precipitarsi, quell’interminabile affannarsi, quando non c’è proprio nulla che lo giustifichi?
Io sto dalla parte della lentezza. Mi piace restare a guardare la luce che in maggio si attarda sui primi frutti, e declina calma dietro i monti. O come un bimbo fa con la sua barchetta di carta, mandare le riflessioni ad incagliarsi pigramente nei meandri delle incertezze. Ai miei occhi la lentezza equivale alla grazia dei movimenti femminili, all’amore fisico giocato in armonia, alla necessaria fermentazione del mosto nelle botti, al giusto rispetto per ogni evento dell’esistenza. Mi sono perciò ripromesso di vivere senza fretta tutte le età che il destino mi concederà ancora.