L’11 settembre 2002, RaiSat trasmette uno speciale dal titolo C’era una volta a New York condotto da Gianni Riotta. Nel corso della trasmissione viene mostrato un documentario del 1974, Dentro l’architettura, che illustra il World Trade Center allora appena edificato. Ebbene, durante il filmato appare inaspettata un’immagine: un jet solca il cielo e passa dietro una delle Twin Towers, ma l’effetto ottico produce la sconvolgente sensazione che esso vada a schiantarsi contro. Per associazione d’idee mi torna in mente il mitico epilogo di King Kong sull’Empire State Building. E L’inferno di cristallo, con quelle scene di panico sul gigantesco grattacielo in fiamme, Independence Day, con gli alieni che sbriciolano la White House e (ancora!) l’Empire State. Ripenso a Godzilla che demolisce mezza Manhattan. E al tirannosauro di Jurassic Park II che semina terrore e morte in una metropoli.
Il giorno successivo, leggendo La Stampa, m’imbatto in una frase di Ermanno Olmi: << Se a volte sembra che il cinema precorra la vita, è perché i suoi autori riescono a rappresentare le paure inconsce della gente >>. La distruzione del grattacielo – simbolo del lavoro, del progresso e dunque della nazione stessa – pare essere una singolare e inquietante costante nel repertorio filmico americano. È possibile che il cinema sia stato capace di mettere in scena le angosce ancestrali di quella società? È possibile che essa abbia cercato di esorcizzare le proprie ossessioni proiettandole su uno schermo bianco? Sono soltanto insensate speculazioni, oppure c’è qualcosa di vero nel fatto che l’arte sia in grado di gettare una luce preveggente sul mondo?