Si sentiva come se si fosse trovato improvvisamente a Lisbona, senza sapere come vi era arrivato. Come se fosse sempre stato un altro, e si reincarnasse in quell’istante al biancore dei palazzi di Praça do Comércio. Aveva udito di gente che aveva perduto la memoria e non ricordava più chi era. Quasi si attendeva che, chiudendo gli occhi, la realtà gli si ristabilisse nella coscienza. Invece no. Li riapriva, e non succedeva niente. Si domandò che ne sarebbe stato di coloro che avevano fatto parte della sua vita. Erano scomparsi, come in un riuscito gioco di magia. Li aveva lasciati soli, a camminare senza di lui per le strade della sua città.
Anch’io sono scomparso, si disse. Anch’io sono stato soltanto uno che ha smesso di passare per le strade della mia città. Uno che sarebbe stato rievocato con un “chissà che ne è stato di lui” e un’alzata di spalle. In fondo, non era che un passante. Un passante in meno nella storia di chiunque. Ma il pensiero di non avere un posto, né mai avuto, stranamente non lo angosciava. Al contrario, gli dava una confortante sensazione di leggerezza. Nell’irreale intimità del crepuscolo, i pensieri si muovevano sbadati come la sua andatura. La Praça sembrava un elegante palcoscenico che si apriva sulle acque placide del Tejo. L’armonica bellezza dei palazzi e la statua equestre di Don José facevano da quinta. E sopra i tetti, il castello di São Jorge sfumava nel cielo limpido verso le prime stelle. Aveva sempre più l’impressione di trovarsi in un sogno dimenticato.
Dal tavolino di una trattoria della Baixa s’incantò a guardare la propria anima, ma non le chiese nulla. Intorno a lui, il senso di antiche metafisiche era steso ad asciugare come un impermeabile che aveva preso pioggia. E l’impalpabilità delle filosofie esistenzialiste si coagulava nei labirinti fumosi dei sigari sopra i calici di porto. Ci sono sempre delle buone ragioni per viaggiare, diceva, basta sceglierne una qualunque. La più importante era che la vita gli stava stretta e ogni tanto gli faceva male, alla maniera di un paio di scarpe. Semplicemente partiva, se ne andava, lasciava indietro le cose. Viveva nel presente, come se non avesse un passato, come se presagisse di non avere un futuro. Sapeva che ciò che era o non era stato, aveva o non aveva fatto, sarebbe svanito nell’indifferenza del tempo. Come il grande estuario che, superata la torre di Belém, si disperde nei gorghi salati dell’Atlantico. Perduto, come si perdono tutti. Peccato che, ammoniva il poeta, “così presto passa tutto quel che passa”. Sarebbe bastato solo dilatare un po’ il tempo, renderlo qualcosa più di niente…
Gli tornarono alla memoria i dipinti esposti al Gulbenkian. Lei era entrata nel suo quadro con un tempismo quasi teatrale. Pareva che fosse comparsa lì allo scopo di compendiargli tutta la vita. Gli spiegava: tu sei così, e lui si riconosceva stupefatto nelle sue parole. Come se gli avesse riprodotto sotto gli occhi il proprio ritratto. Per questo, quando gli disse con naturalezza io sarò il tuo prossimo viaggio, aveva definitivamente abdicato da se stesso.
La sera era scesa non imprevista tra i vicoli della vecchia Lisbona. Il ventotto sferragliava per la salita del Barrio gemendo come un endecasillabo. Ad ogni scarto secco, improvviso, gli uscivano dal corpo ondulazioni scomposte. Percepiva netta la meravigliosa stanchezza delle ali che si posano al termine di un volo controvento. Il tram continuò la corsa verso il capolinea. La direzione lungo cui lo conducevano i piedi gli si mostrava nel momento stesso in cui la percorreva. Funzionava così anche per le storie che fin da bambino s’inventava. Mentre le creava, le inseguiva dietro curve e dossi per capire dove l’avrebbero portato. Era un gioco che gli riusciva senza sforzo, sebbene risultasse il più delle volte rinchiuso in una metafora enigmatica. Ma questa storia era la propria storia, non la fantasia di una notte insonne. E se per caso lo era, stava sconfinando con continuità inspiegabile dentro la realtà.
Si fermò di fronte ad un portone. Non era mai stato lì, eppure si orientava senza alcuna esitazione tra quelle piccole strade. Vide la targa in ottone brunito e cercò il nome. Lo trovò subito. Non ebbe neppure bisogno di suonare. La serratura schioccò riecheggiando nel silenzio. Il cielo sopra Lisbona era foderato di stelle. La brezza marina pettinava le nuvole dall’oceano verso la collina. Le luci della città tremolavano giù in basso contornando l’oscurità del Tejo. Il sottofondo di rumori lontani sfumava nell’indefinito. Era l’immensa notte che cresceva tiepida, e inumidiva la pelle di remote sensazioni tutte da svelare.
(Maggio 2005)
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