Uno straterello di sudore gli si formò all’attaccatura dei capelli, striando obliquamente la fronte fino alle tempie. Lo sguardo sfocò nel vuoto, mentre un cumulo di pensieri indistinti prese a scendergli intorno alla testa e nel petto. Ritornò alle parole che aveva appena terminato di pronunciare, cercando di ricostruire il filo logico lungo il quale gli erano uscite dalla bocca. Qualcosa di vagamente insoddisfacente, che non riusciva ad intuire, lo stava preoccupando. Come se avesse mentito e si fosse poi reso conto di averlo fatto in maniera approssimativa. Così approssimativa da non aver convinto l’interlocutore. Anzi, come se avesse chiaramente capito l’inganno. Ma quale inganno. Aveva parlato del più e del meno, appena qualche innocente riferimento personale. No, doveva aver detto qualcosa di sbagliato: l’altro aveva annuito senza ribattere, ma in cuor suo aveva mangiato la foglia.
Ma quale foglia. Cattiva coscienza. Ecco cos’era. Perché ultimamente era ricorso a piccoli e reiterati sotterfugi, a qualche espediente di troppo. E si stava accorgendo che il senso della realtà abdicava pian piano a un percorso esistenziale più tortuoso, in cui la finzione derapava sempre più sovente nella quotidianità. Ogni tanto aveva la spiacevole sensazione che una seconda personalità emergesse lentamente, insinuandosi nei varchi dell’immaginazione lasciati aperti dalla stanchezza. In certi momenti gli pareva persino di vivere due volte, di sostenere un doppio ruolo in una commedia degli equivoci. Adesso, però, uno di quei differenti personaggi aveva preso la parte che non gli spettava. Erano certi sentimenti di colpa che si facevano sentire? Ma a quali colpe si stava precisamente riferendo. No, anzi, gli pareva ormai che i sotterfugi fossero l’unico modo per sopravvivere che conosceva. Il fatto è che aveva risposto in modo vago, quasi non sapesse di cosa stava parlando. Ma certo invece che lo sapeva.
E allora cos’era. Perché percepiva netta l’impressione che qualcosa di fuori luogo avesse insospettito l’interlocutore. Di cosa aveva paura. Che qualcuno s’introducesse nei meandri del proprio io, carpendogli qualche brandello celato persino a se stesso? Eppure, chi non teme di veder scoperti quei segreti inconfessati che giacciono ben protetti in ciascuno di noi. Chi non ha paura di veder smascherata la propria intimità, sebbene spesso non ci sia niente di cui vergognarsi. In verità, non sappiamo se abbiamo davvero qualcosa per cui provare almeno un po’ d’imbarazzo. Nel dubbio, però, riserviamo per noi stessi accadimenti o pensieri occulti, che lasciamo sedimentare in quello spazio compreso tra conscio e inconscio di cui preferiamo non sapere nulla.
In questa circostanza gli pareva di essere stato sincero, di aver detto la verità. Perlomeno qualcosa di verosimile che si avvicinava alla realtà. Ma non ne era affatto certo. Forse il tono non era stato convincente. Ecco. Non aveva funzionato il tono. Era quella la componente sbagliata di tutto il discorso. Era la voce, incerta, pensierosa: come se, colto alla sprovvista, avesse dovuto inventarsi un pretesto lì per lì. Già. Ma perché? In quel momento, non c’era motivo di sostenere un ruolo che non fosse il proprio. Nessuno. O forse invece, a pensarci bene, c’era. Poteva essere liberamente se stesso, rilassato, senza problemi? In apparenza sì, ma aveva avvertito come un blocco che lo aveva reso esitante sino alla reticenza. C’erano dei dettagli che ora non funzionavano, dei conti che non tornavano più.
La verità era che due mondi fino allora paralleli, che indisturbati si avvicendavano in un perfetto gioco delle parti, si erano per un attimo incrociati. E inavvertitamente entrati in conflitto. La situazione gli era scappata all'improvviso di mano, le idee incomprensibilmente confuse. Forse stava semplicemente perdendo il controllo di sé...
Quel disordinato affollamento di pensieri fu improvvisamente cancellato da una fitta acuta all’emitorace sinistro che lo riportò alla realtà. Abbassò lo sguardo e vide che la lama gli si era infilata nella stretta rima intercostale, trapassandogli la parete muscolare. In un barlume di pensiero, suppose che doveva avergli perforato il pericardio per arrestarsi nello spessore della parete cardiaca. Una morsa lacerante di dolore gli s’irradiò tra i visceri. L’emorragia ora zampillava sangue vivo e libero in tutto il torace. Si rese conto dell’errore. In un attimo di distrazione aveva abbassato la guardia e l’avversario, lesto, ne aveva approfittato per colpirlo. Il classico emopericardio, considerò sgomento. Le forze gli vennero lentamente meno, respirava a fatica, un senso di stanchezza diffusa annebbiò la vista, voci distorte e sempre più lontane, come un formicolio diffuso, vertigine, nausea, freddo, brividi, paura, ancora una fitta, nemmeno il tempo per dir
(Ottobre 2005)