(Scritto per il Forum Cinema di Kataweb nel dicembre 2002, rivisto e aggiornato in occasione della Giornata della Memoria 2008.)
Il grande dittatore è uno dei film più controversi dell’intera storia del cinema, poiché reca in sé un dilemma inquietante: si può ridere di Hitler e del nazismo? È lecito fare satira su un regime che ridusse il mondo a un campo di battaglia e sterminò sei milioni di persone? Esiste un limite oltre il quale, di fronte all’orrore indicibile, è doveroso rit(i)rarsi in un muto sgomento? Oppure soltanto l’elemento comico riesce a esorcizzare quell’atroce e assurda follia che nessuna logica potrebbe altrimenti spiegare?
In questo film del 1940, Charlie Chaplin interpreta la duplice parte di un barbiere ebreo che ha perso la memoria e di un grottesco dittatore ricalcato sul personaggio del Führer. L’ironia è spietata e l’ideologia umanitaria emerge chiaramente nella lunga invettiva con cui si chiude la pellicola. Siamo appena all’inizio della seconda guerra mondiale: Chaplin teme per il futuro della democrazia a causa dei regimi totalitari che stanno prevalendo, ma spera ancora in un futuro migliore.
In Vogliamo vivere (To be or not to be, 1942) una compagnia di attori polacchi deve mettere in scena uno spettacolo antinazista. È la vigilia della guerra, ben presto gli eventi precipitano e Varsavia si ritrova alla mercé del governatore tedesco. Gli artisti, che hanno dovuto smettere di recitare, hanno però costituito un attivo centro di resistenza. Grazie ai costumi che avevano pronti, giocano una serie di beffe agli oppressori e, infine, riescono a scampare in Inghilterra servendosi dell'aereo di Hitler. Si tratta di una delle commedie più divertenti e meglio architettate di Ernst Lubitsch, che, a suo tempo, dovette difendersi da aspre critiche per l'approccio farsesco ad un tema tanto drammatico e doloroso. Tanto Lubitsch quanto Chaplin adoperarono dunque il registro comico per narrare eventi ancora in corso di cui non conoscevano però la tragica portata. In seguito entrambi riconobbero che, se fossero venuti a sapere dei campi di concentramento e del genocidio degli ebrei, non avrebbero mai realizzato i loro film.
Nel 1983, Mel Brooks produsse e interpretò Essere o non essere prendendo spunto dall’omonimo lavoro di Lubitsch. La commedia è brillante, paradossale, ricca di battute e di gag divertenti. Brooks spicca in una compagnia di bravissimi attori – Anne Bancroft su tutti – e nella divisa di Hitler rende omaggio al grande dittatore di Chaplin.
Train de vie racconta le tragicomiche peripezie degli abitanti di uno shetl romeno che, per evitare la deportazione, allestiscono un finto convoglio ferroviario nel folle tentativo di raggiungere la Palestina. Lo spirito fiabesco del film, diretto nel 1997 da Radu Mihaileanu, s’incarna nello stralunato lirismo dello scemo del villaggio che funge anche da narratore.
La vita è bella resta a tutt’oggi l’opera di Benigni più ambiziosa, difficile e rischiosa, ma probabilmente la più riuscita. È la struggente storia di un padre che, per proteggere il figlio dall’indicibile orrore del campo di concentramento, gli fa credere che si tratti di un gioco a premi con in palio un carro armato. Le due parti di cui si compone il racconto, pur nettamente separate, sono tra loro complementari e la verve umoristica della prima alleggerisce il contenuto drammatico della seconda.
Moloch (1999) è un pregevole film di Aleksandr Sokurov, il quale, con stile raffinato ed ellittico, riflette con lucidità sulla figura di Hitler e sul fascino perverso che esercitò il regime nazista – alle cui radici stanno contemporaneamente follia, terrore e ridicolo. Ambientato sul Berghof, la residenza estiva del Führer nelle Alpi bavaresi, l’elemento comico prende in quest’occasione le cadenze del grottesco, fatta salva l’assoluta fedeltà alla realtà storica degli avvenimenti.
Il più recente Mein Führer (2007) si addentra invece in una feroce caricatura di Hitler, descritto come un fantoccio isterico con un’infanzia difficile alle spalle e una sessualità malamente repressa. La genialità del regista Daniel Levy (ebreo di nascita e tedesco d’adozione) sta nel ricondurre il nazismo ad una rappresentazione di marionette tanto spietate quanto vanagloriose.
Per concludere questa breve carrellata, va citato un film che in qualche misura anticipò Il grande dittatore, precorrendone lo spirito anarchico e antimilitarista. Si tratta di La guerra lampo dei Fratelli Marx (Duck Soup, 1933), considerato da molti il loro capolavoro, miscela perfettamente riuscita di satira politica e sociale. Nel piccolo regno di Freedonia, Rufus T. Firefly (Groucho) assume i poteri di dittatore, ma deve fare i conti con l’incompetenza propria e degli aiutanti Chico e Harpo. Come accadde al film di Chaplin, negli Stati Uniti la pellicola fece fiasco. In Italia venne censurata dal fascismo e fu apprezzata soltanto a partire dagli anni ’60, sino a divenire un vero e proprio oggetto di culto.
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