La sala fu invasa da un gruppo di maschere avvolto dal freddo di fuori. C’era anche un suonatore di fisarmonica, e tutti si diedero a ballare con saltelli rapidi e brevi. Qualcuno aveva aperto una bottiglia di vino e offriva da bere a chi porgeva il bicchiere. Erano maschere stranissime. Alcune vestite da donna, con ampie sottane e merletti bianchi che coprivano interamente il viso. Altre sembravano ragazzi vestiti con vecchi abiti rivoltati e le fodere rotte. Uno teneva in un sacco del pane raffermo, le donne reggevano al braccio grosse valigie vuote. Dopo che ebbero ballato e bevuto si fecero riconoscere. Rimasi strabiliato quando scoprii che le maschere vestite come vecchie pazze erano invece dei giovani scatenati, e quelli che credevo ragazzi erano stravaganti signore giunte dal vicino ospizio. Gridando e sbattendo i piedi per terra se ne andarono allora tutti quanti, accompagnati dalla fisarmonica che imperterrita continuava a dare il ritmo.
La sala restò vuota nel silenzio, il pavimento disseminato di coriandoli e stelle filanti. Fu allora che lei si avvicinò. Aveva le guance rosse, il naso da pagliaccio, una ciocca gialla di parrucca spuntava dal cilindro posato a sghimbescio sul capo. Il trovarmi così a quattr’occhi mi metteva leggermente a disagio. Sapevo che era beffarda, non mi avrebbe rispettato, e finito col vendicarsi per essere stata lasciata nello sgabuzzino. Senza parlare aprì il corpetto e pose la mia mano sul seno. Sentivo distintamente il suo alito che odorava di colla e cartapesta. Ma bastò aprire la finestra e lasciar entrare la luce del giorno che il pagliaccio moriva e si ricopriva di polvere.