Ricordo che frequentavo la seconda media. Quel giorno la professoressa di matematica ci fece uscire venti minuti prima. L’istituto ospitava una scuola professionale e lei temeva che avrebbero potuto esserci incidenti. Noi ragazzini schiamazzammo verso il portone senza capire.
Ricordo quando, giunto a casa, la mamma disse che avevano rapito Moro. Sapevo appena chi fosse, di quale partito era il presidente. Ma quella stella a cinque punte la vedevo spesso schizzata sui muri della mia città, e ogni volta avvertivo il peso di una minaccia oscura.
Ricordo quell’interminabile Tg1, con Paolo Frajese che mostrava i fori dei proiettili nelle fiancate delle automobili, i bossoli sparsi in terra, il sangue sui sedili. Mentre parlava della scorta falcidiata dai mitra aveva la voce ansimante. Io ero lì che ascoltavo in silenzio, senza sapere cosa pensare.
Ricordo il mio turbamento, che sconfinava in un’inspiegabile paura, come se qualcosa di grave potesse accadere anche alla mia famiglia. Quel giorno sancì, ad un tempo, la fine di un’infanzia serena e il drammatico ingresso nel mondo degli adulti.
Ricordo bene le reazioni politiche, distinte tra coloro che non intendevano trattare e quelli invece disposti ad un accordo. Ricordo che non capivo l’intransigenza del suo partito, come se nessuno volesse salvare una vita umana; e nemmeno dell’opposizione, che speravo appunto si opponesse.
Ricordo che nelle strade la tensione si tagliava col coltello. C’era la polizia ad ogni angolo, le grida dei manifestanti rintronavano nelle orecchie e i cubetti di porfido fischiavano nell’aria satura di gas lacrimogeni.
Ricordo che gli inquirenti ostentavano sicurezza e padronanza della situazione ad ogni trepido giornalista. Ma rimaneva l’impressione che le indagini brancolassero nel buio, tra falsi indizi e depistaggi.
Ricordo gli annunci dei bollettini ciclostilati lasciati nei cestini della spazzatura. Ricordo le cupe parole d’ordine – prigioniero politico, lotta armata, processo del popolo, borghesia imperialista – che sentivo risuonare cariche di un odio fino allora sconosciuto. Ricordo le lettere del rapito inviate al partito che, era chiaro, l’aveva ormai abbandonato. Ricordo le sue foto, sempre con quella stella maligna dietro le spalle, l’espressione rassegnata alla fine.
Ricordo le parole di Paolo VI agli “uomini delle Brigate Rosse”, un capolavoro di disperata diplomazia che dimostrava semmai l’ignavia e il machiavellismo in cui si stava barcamenando la politica. Mi diedero la sensazione di un appello inutile a scongiurare una tragedia incombente. Ricordo il 9 maggio, quando la nonna telefonò alla mamma per dirle che era stato ritrovato il cadavere di Moro. Accesi il televisore, ma non riuscii a sostenere più di tanto la vista delle immagini. Mi rinchiusi in camera, a domandarmi angosciato cosa ne sarebbe stato di me, di noi tutti.
Trent’anni fa.
Sono ricordi in bianco e nero. Come la televisione di allora, come il chiaro e lo scuro di quei giorni in cui alla scuola e alle partite di pallone si erano sovrapposti i fantasmi di un brutto sogno. Come un film nel film. Anzi, dentro il film.
Ciò che più crea disagio è, stranamente, la memoria. La memoria di un passato che resiste ostinata all’incuria del tempo. Paradossalmente più forte di una verità rimasta invece precaria, sospesa tra reticenza e silenzio.
Troppo intollerabile, forse, per essere detta.
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