Ho lasciato soltanto le impronte, non ho portato via nulla oltre i ricordi. Il giallo ocra di Wadi Rum, il sole a picco sull’arenaria, il vento rovente che bruciava la pelle, quella sabbia che ritrovavo dappertutto, nei capelli, dentro i vestiti, fin tra i denti, la sconfinatezza del cielo sopra la scultura dei Sette Pilastri. Tutti frammenti di un racconto senza parole possibili.
D’improvviso poi le orme dello sciacallo. Avevo sentito il suo urlo sgraziato già sull’altopiano di Petra. Era da qualche parte, nascosto là intorno. Mi stava tenendo d’occhio da lontano con aria sorniona. Avrei detto un elemento non casuale, l’avvisaglia di un destino in disordine che sa attendere. Quando scese la notte, allora lo vidi. Poco lontano dal fuoco che rosseggiava l’accampamento beduino e dal brontolio cavernoso dei cammelli. Lo seguii con gli occhi trattenendo il respiro affinché l’immagine non si muovesse. Poco più che una macchia scura intercettata nel blu monocromatico della valle.
Mi sdraiai fuori della tenda, attardandomi a contemplare le stelle. Il profumo fumante del tè alla menta saliva alle labbra sempre più intenso fino a penetrare il respiro. L’alba sembrò arrivare prima, con quella luce forte e i pensieri stipati di suggestioni. Dovevo scendere a sud per arrivare al porto di Aqaba, dove mi sarei imbarcato per l’Arabia. Non conosco altro che il deserto, eternamente immobile, uguale a se stesso.
Camminando lungo la ferrovia m’imbattei nella carcassa di un montone.