Le sue mani, appoggiate ai bordi del piatto. Che strano. Le guardo senza riconoscerle. Estranee. Sembrano persino più grandi, le falangi ingrossate, le nocche nodose, i palmi sudati. Nemmeno più le sue. Due farfalle appesantite che si muovono senza sosta. Gesti rapidi, frettolosi, spesso imprecisi. Com’è lei, tesa, nervosa, tanto da mettermi a disagio. Non riesco ad immaginarle addosso a me. D’altra parte mi cerca di rado. Anch’io, a dire il vero. Se ne sarà accorta, naturalmente, però resta ad aspettare. Come faccio io. Una carezza, un abbraccio. Ogni tanto ne avrei bisogno. Non ci vorrebbe molto, in fondo. Soltanto un pizzico di dimestichezza con i sentimenti. Proprio ciò che un tempo ammise di non possedere.
Rimane lì, muta, rigida, bloccata. Mantiene le distanze, separata, lontana. Chissà che starà pensando, di noi, di me. Prende le misure come se dovesse fare uno sforzo ignoto per capire. Se mi guardasse negli occhi leggerebbe tutto quanto, senza difficoltà. Le volto le spalle, dispiaciuto, eppure è con me stesso che dovrei fare i conti. Finché ci credevo ho combattuto come una furia, ostinatamente, raccogliendo tutte le forze. Dopo aver accettato la sconfitta ho ceduto di schianto. Una stanca rassegnazione si è impossessata di me. Ho smarrito il coraggio, la fiducia. Non chiedo né mi chiedo più nulla. Preferisco proseguire, non sapere. Fare a meno di quelle mani che un tempo reclamai e ottenni. Che adesso rimangono strette a pugno, le dita ripiegate su se stesse, a difendere segreti impenetrabili.