La sera del 24 aprile si udì una raffica di mitra e tutti intuirono che erano arrivati i partigiani. Quelli della borgata che si trovavano fuori casa nell’ormai tiepida sera di primavera preferirono rientrare prima del coprifuoco. Non si trattava della solita incursione notturna, i tempi apparivano maturi per un’azione più decisa. Giorni prima era transitata lungo il Po la guarnigione repubblichina. Si stava ritirando, facendo un gran polverone, lasciandosi dietro un silenzio pieno di sollievo. Il presagio della fine.
Da Borgata Rosa fino all’attacco della strada per Superga era tutto un susseguirsi di prati e campi. I binari del tram passavano al centro di Corso Casale per arrivare fino giù a Gassino. La Madonna del Pilone possedeva ancora le sue piole e qualche locale di prestigio: il Muletto, Goffi, Cucco. In fondo a Strada Valpiana si trovavano posizionati i cannoni contraerei. Al Velodromo erano passati i tedeschi, eppure nessuno aveva capito cosa ci facessero. Il parroco era don Luigi Corgiatti, detto Barba Vigio, un antifascista tosto, uno che diceva pane al pane. Ma in tutto il quartiere si agitavano da tempo fermenti di libertà, con tutti quegli operai, quelle tessitrici, i tranvieri, gli studenti. C'erano socialisti, anarchici, liberi pensatori, qualche sindacalista bianco. Clandestinamente operava anche un CLN che si riuniva nella società di mutuo soccorso De Amicis.
Il 25 mattina si respirava un’aria insolita, come un senso di liberazione. I volti della gente apparivano stupefatti, persino smarriti. A jé i partigia-n ch’a rivo. Il comandante Alì, Bill, Pieri-n, Ceco ‘l Matt, Gigi, Tom. Qualcuno ostentava un atteggiamento impertinente, altri sfoderavano sorrisi temerari. Erano giovani e forti, audaci e imprudenti. Avevano i capelli incolti, forse non mandavano un buon odore. Pochi indossavano divise riconoscibili ma tutti imbracciavano un'arma. Del loro coraggio arrivava l’eco fino nei paesi arroccati sopra le colline. Cinzano, Sciolze, Bardassano, nei boschi di Pino Torinese. Stavano combattendo l’ultima battaglia e la vincevano. Scalzi e con le canottiere bucate, i bambini li guardavano con un po’ d’invidia.
Ad attendere i partigiani c’erano le macerie del bombardamento a tappeto avvenuto nella notte del 13 luglio ’43. Una striscia che tagliava il quartiere da Sassi verso la barriera di Casale, Corso Quintino Sella, il monte dei Cappuccini e ancora oltre, verso Cavoretto. Un solco di morte che fu la strada percorsa il 26 aprile dalla Brigata Monferrato, con il suo carro armato catturato ai repubblichini, per liberare questa parte di città. Non fu subito festa, i fiori dai balconi, le piazze imbandierate. Si sparava ancora, i cecchini stavano in agguato sui tetti, la popolazione restava in casa e aveva paura. Solo il 6 maggio Torino sarebbe stata finalmente libera.
Partigiani. Oggi non è che una parola. Molti nomi sono stati scritti sulle lapidi in quei giorni, altri di loro se ne sono andati negli anni che vennero. Chi è rimasto racconta il combattente che era allora con un filo d'orgoglio. E si capisce che quelle storie riguardano ancora la vita di tutti. Non erano ideologi né rivoluzionari. Avevano idee semplici, aspiravano alla libertà e ne conoscevano il prezzo. Adesso spetta a noi difenderla, anche per loro.
(Testimonianze raccolte personalmente e in parte desunte da "25 Aprile - Quarant'anni dopo", a cura di Piero Morini, CELID, 1985, ed. non in commercio.)
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