Rileggo ancora una volta la ricetta. Non mi pare difficile. Gli ingredienti ci sono tutti, si può cominciare.
Torta caprese. Andiamo.
Il burro si sta ammorbidendo a temperatura ambiente, bene: 200 grammi giusti giusti. Al diavolo il colesterolo, Hdl, Ldl, Vldl… Very Low Density Life. Yes, baby. I miei pensieri oggi sono imponderabili. Niente ruminazioni mentali, niente da interpretare, da capire. Tutto scorre come acqua limpida di sorgente. Cucinare mi rilassa e mi distoglie dalla lista dei perché inchiodata nel lobo frontale. Gli alimenti che ho davanti riconciliano con le cose genuine della vita. Mi sento com’era mia nonna: stessa calma, stessa semplicità.
Rompo sei uova, separando i tuorli dagli albumi. Mi viene da ridere. Ripenso a Sara, che allora aveva tre o quattro anni, quando disse dopo avermi fissato per un quarto d’ora: sei proprio un bell’uovo. Già. Un uovo in camicia, e con la cravatta.
Dunque. Gli albumi li tengo da parte, che tra poco mi servono. Intanto tuffo i tuorli in 200 grammi di zucchero e mescolo un po’. Lo zucchero. Meno male che non ci ho la diabete. La diabete. Perché tutti dicono la diabete? Anzi, la diabbete? Dalle Alpi alle Piramidi, dal Manzanarre al Reno. Boh, non l’ho mai capito. Come aggratis, stessa roba. Sotto dev’esserci una sorta di passaparola diabolico. Anzi, diabbolico.
Va bene. Lavoro il burro finché non diventa cremoso. Quindi lo amalgamo con lo zucchero e i tuorli, e ci aggiungo mezzo bicchierino di brandy. Non so quelli che cominciano a bere di prima mattina. Un quartino, tanto per cominciare la giornata. Mi viene la nausea solo a pensarci. E allora non ci penso. Amalgamalgamalgamalgamalgamo. L’impasto comincia a diventare soffice. Ah già, la ricetta dice di aggiungerci un pizzico di sale. Non so bene a cosa serva, ma il sale c’è in quasi tutti i dolci. Forse per ricordare che, anche nelle cose buone della vita, si trova sempre un fondo di amaro. Memento mori. Ciàpa lì. No, niente filosofia oggi. Tutto deve essere chiaro e morbido, come quest’impasto.
A parte, setaccio insieme 200 grammi di farina, una bustina di lievito e 50 grammi di cacao amaro. La ricetta dice 100 grammi, ma vedo una nota di Giulia che dice di averne usati solo 50. Avrà voluto fare economia come al solito? Può darsi, comunque mi adeguo. Chissà la faccia che farà quando vedrà la torta. Ogni tanto penso che, quando si è in due, i momenti migliori si trascorrono quando si rimane da soli. Quando ciascuno insegue le proprie traiettorie esistenziali senza la zavorra dell’altro.
Allora. Unisco il composto alla crema di burro con il cucchiaio e mescolo ancora. Finora non sto andando male. Non solo ho evitato guai, ma nemmeno sto sporcando più di tanto. Assaggio con un dito – lo fanno tutti i cuochi, dunque sono autorizzato. Commestibile, direi. Bene, bene. Poi aggiungo 300 grammi di mandorle che ho già macinato.
Adesso: montare a neve i sei albumi. Anche qui dovrei aggiungere un pizzico di sale, sebbene il significato mi sfugga di nuovo. Ci vorrebbe un chimico, più che un pasticciere. Fa uguale, niente domande, oggi sono un mero esecutore. Con la frusta elettrica ci metto un amen. Incorporo quindi gli albumi all’impasto, mescolando dal basso verso l’alto e imprimendo un movimento quasi rotatorio.
Fantastico. Se è buono quanto è bello... Eh sì, dev’essere per forza così. Kalós kaì agathós. Mica l’ho detto io. Caspita, faccio una fatica a leggere il greco. E dire che una volta andavo a nozze pure con la metrica. Quattro anni fa, ad Atene, sono riuscito a tradurre a malapena la pubblicità di uno yogurt e un manifesto del partito socialista. Che scarso.
Accendo il forno e lo lascio scaldare. Poi mi procuro uno stampo – sarà sufficientemente ampio? – e lo imburro. Mi piace sporcarmi le mani. In fondo sono rimasto un gagno. Datemi qualcosa con cui pacioccare e io mi perdo. Però, adesso, concentrazione. Devo versare l’impasto nel contenitore, senza fare disastri. Così… perfetto. Il tocco del maestro, diceva Dupuytren, il chirurgo di Napoleone, specialista nell’amputare gli arti ai soldati. Un colpo secco, preciso, e via. Un bell’applauso, siòre e siòri. Altro che Tarantino.
Ora bisogna infornare a 120 gradi per una quarantina di minuti. Un’altra nota di Giulia dice che ci vuole qualcosina di più, semmai verificherò con uno stuzzicadenti. Una volta che la torta è cotta, occorrerà lasciarla raffreddare e quindi cospargerla di zucchero a velo.
Si tratta soltanto più di attendere. Riordinando la cucina e senza salivare come il cane di Pavlov.
(Ricetta provata il 23 Gennaio 2005)
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