Sarebbe facile – un’elegante soluzione – dire che niente è cambiato. Il lungomare, il minigolf, i baretti, persino i bagni Helios (gli ombrelloni gialli invece che blu). Ma si tratterebbe di finzione poetica, e lo sai bene. Ti rivedi invece in quel chiarore crepuscolare di fine agosto, appoggiato al parapetto sul molo, mentre pensi: questa è l’ultima volta. Come un tappo di sughero venuto inaspettatamente a galla. Lidia aveva i capelli sgranati, la pelle accaldata, un’espressione fragrante in viso. Nulla di preoccupante, nessun segreto a frapporsi. La voce dei gabbiani prometteva un bene che il cuore già presagiva fiducioso.
Non avvenne mai.
Alassio sarebbe diventata un grumo da rimuovere, prima, una stanza di scaffali vuoti dopo.
Vent’anni più tardi – diciannove per l’esattezza – rimane un semplice gioco di ricordi in progressione. Il budello, il muretto, corso Diaz, la Gallinara, i Baci. E lo stesso posto sul molo, la luce dorata del tardo pomeriggio, non una nuvola nel cielo rinfrescato dal vento francese. Tutto normalmente lì, senza scossoni, trasalimenti, ripulito dalla polvere raccoltasi nel frattempo sul fondo della memoria.
Due ragazzi si fanno coraggio, poi si tuffano nelle onde fredde della baia.
E allora lascia in pace le persone e le circostanze. Anche te stesso, se riesci. Nulla è più come prima, né potrebbe esserlo. È il tuo sguardo, che è un organismo vivente, ad essere cambiato.
(Alassio, 6-7 settembre 2008)