"Egli racconta camminando su e giù nel mezzo della sala del caffè, fermandosi solo ogni tanto, quando l’espressione richiede un certo atteggiamento enfatico… Non di rado durante qualche affascinante impresa… si interrompe improvvisamente e se ne va… Gli ascoltatori, tenendo in sospeso la loro curiosità, sono indotti a ritornare alla stessa ora il giorno dopo per ascoltare il seguito…"
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Abu Shadi si esibisce tutte le sere alle 19 nell’elegante caffè Al-Nawfara, nei pressi della Moschea Omayyade a Damasco. Vestito con pantaloni a sbuffo, gilet, baffi alla Groucho Marx e fez in testa, prende una sedia, apre uno dei suoi volumi di racconti scritti a mano e comincia a leggere.
Abu Shadi si considera con orgoglio venato di malinconia l’ultimo hakawati. L’ultimo cantastorie di professione. Come molte tradizioni del mondo arabo, quest’arte antica sta soccombendo ad altre forme di spettacolo: in primo luogo la televisione, i cui programmi seriali ottengono in Siria un vastissimo seguito popolare.
Le storie narrano le imprese leggendarie del sultano Beybars o di Antar ibn Shadad, eroi appartenenti all’epica islamica autori d’imprese fantastiche, astuzie e magie. Ma ciò che più affascina è la mimica con cui Abu Shadi le mette in scena: interrompendo l’azione con commenti e battute, enfatizzando i discorsi pronunciati dai personaggi, sottolineando i momenti topici con il roteare di una spada che picchia su una tavola di rame. Il pubblico viene coinvolto di continuo, partecipa rumorosamente e si diverte da matti. Anche il turista straniero che, sorseggiando una tazza di tè verde, non capisce una sola parola. Purtroppo gli spettatori sono sempre meno numerosi. Abu Shadi sostiene che nessuno trova più il tempo per ascoltare questi racconti ed è convinto che, con lui, finirà l’epoca dei cantastorie. Com’è già successo da noi, molti e molti anni fa.