Gli ’80 erano entrati in scena tra lustrini e paillettes sgambettando gli anni di piombo. L’arroganza craxiana metteva in mostra i primi denti, un oscuro palazzinaro milanese iniziava a far parlare di sé, il Mundial stava alle porte con un dubbio amletico: Graziani o Paolo Rossi? Più modestamente erano anche gli anni in cui, bravo ragazzino educato, frequentavo il ginnasio con discreto profitto.
Un giorno di fine aprile andava in programma la consueta disfida calcistica tra quinta C e quinta A. Si giocava in un campaccio sterrato, pieno di buche e dossi, a fianco della cremagliera per Superga. Oggi è diventato un brutto parcheggio in cemento, ma qualcuno lo ricorda ancora per averci lasciato le caviglie. Poiché noi di quinta C continuavamo a perdere in maniera ignominiosa, alcuni dei miei compagni decisero di organizzare un vero e proprio ritiro prepartita. Usciti da scuola, invece di tornare a casa, ci recammo in pizzeria per stabilire la strategia di gioco. “Pim acchiappa la palla, scatta sulla fascia sinistra e crossa al centro dove Mauro di piede o Lanfranco di testa la butteranno dentro”. “Al solito: io sgobbo, sudo, e voi state lì ad aspettare belli freschi”. “Picio, e tu non sudare…”.
Già nella mattinata il tempo prometteva nulla di buono, ma intorno alle due del pomeriggio cominciarono a piovere cani e gatti. Annullato pertanto l’incontro, prendemmo a bighellonare sotto i portici di via Po attendendo un’ispirazione. Come fu, come non fu, giungemmo all’altezza del cinema che attualmente porta l’enfatico nome di Empire ma ai tempi era il Vittorio Veneto, un cavernoso localaccio a luce rossa sulla piazza omonima. In testa alla gigantesca locandina posta all’ingresso ammiccava un titolo che era tutto un programma: Sexy Scatenate. Pare promettente, chiosò qualcuno, osservando marpione la signorina discinta che vi campeggiava. Peccato che, essendo tutti tra i quindici ed i sedici anni, dovessimo sottostare, almeno in teoria, al fatidico divieto ai minori.
Breve parentesi. Per noi adolescenti d’allora l’argomento sesso costituiva ancora un tabù. In mancanza di un’esperienza diretta, ci arrivavano dal buco della serratura appena poche immagini considerate “per adulti”. I videoregistratori erano costosi e poco diffusi, le televisioni private trasmettevano certa roba soltanto in piena notte e le riviste porno apparivano competenza esclusiva di qualche orrendo vecchiaccio bavoso. Rimaneva giusto il mito dei cinema a luce rossa che, all’epoca, provocavano un certo prurito trasgressivo.
Quasi per gioco, iniziammo dunque a sfidarci su chi avrebbe avuto la faccia tosta di entrare. E da poco più di una battuta di spirito, qualche manata sulle spalle, la faccenda prese i toni gravi del rito iniziatico. Ormai non era più possibile tirarsi indietro. Finì che a varcare la soglia dell’Ade, sia pure col cuore in gola, fummo in tre: Lanfranco, Carlo ed io. Per combinazione, i ragazzi ritenuti più seri e studiosi da tutti gli insegnanti. Alla cassa, Carlo sfoggiò un’inaspettata nonchalance e ordinò con voce ferma tre biglietti. La maschera li staccò dalla matrice, si prese i soldi, ci squadrò, e poi chiese con modi inquisitori se eravamo maggiorenni. Sì, rispondemmo in coro. “Uhm… la carta d’identità ce l’avete?”, insinuò il marrano. Gulp. Situazione imprevista. Lanfranco fu pronto e rispose che l’avevamo lasciata in macchina, parcheggiata a diversi isolati da lì. Carlo annuì convinto (sissì) mentre io, prudentemente posizionato alle loro spalle, mi limitai ad alzarmi sulle punte per sembrare più alto. Il giannizzero ci esaminò ancora una volta da capo a piedi (giaggià) e quindi, fingendo un’improbabile magnanimità, con un gesto eloquente della mano fece cenno di passare (via, via!).
Gliel’avevamo fatta. Come se fossimo stati graziati da Gianduja salimmo sghignazzando le scale alla volta della platea. Giunti alle pesanti tende di velluto che introducevano nella sala, ci arrivò alle orecchie una musichetta tipo pirulì-pirulà intercalata a rantoli bestiali, analoghi a quelli emessi da un ippopotamo con la colite. Ci guardammo in faccia, occhi sgranati, poi riprendemmo a ridere come matti. (Shhh! Shhh!) Nel momento in cui entrammo… beh, vi lascio immaginare la scena che si presentò ai nostri occhi. Posso solo confessare che quel primissimo piano sull’origine del mondo, dalle sensazionali dimensioni di cinque metri per tre, non mi fece dormire per diverse notti. Per buona parte del film – la cui trama consisteva in una serie inverosimile di accoppiamenti in tutte le posizioni umanamente immaginabili – non smisi di pensare che, per andarcene da lì, dovevamo per forza ripassare davanti alla cassa. Temevo infatti che il villano ci facesse nuovamente delle storie. E se nel frattempo aveva chiamato la polizia? Ma non era tutto. Mi preoccupava soprattutto il fatto che, all’uscita, avrei potuto imbattermi in qualcuno che conoscevo. In ordine di apparizione: la prof di lettere, la mamma, la zia suora.
Quando decidemmo che ne avevamo avuto abbastanza, cercammo di svicolare senza dare troppo nell’occhio. Inutilmente. Le poltroncine di legno scricchiolarono in maniera impressionante, facendo voltare di scatto qualche torvo anzianotto con le mani ficcate nei calzoni. Alla cassa non vedemmo più nessuno e, varcata la soglia, cominciammo a correre onde evitare incontri compromettenti. Ci fermammo infine in una panetteria a metà di via Po per comprare un pezzo di pizza perché, frattanto, ci era venuta fame. Solamente dopo averne ingurgitato almeno metà trovammo la sfacciataggine necessaria. “Come vi è sembrato”, chiese Carlo masticando. “Bah, più o meno come me l’aspettavo”, chiosai ostentando un tono da lord. “Giaggià”, disse Lanfranco con la faccia di chi ha appena partecipato ad una caccia alla volpe, “proprio niente di eccezionale”. “Sissì, vero vero”, fece Carlo meditabondo. Deglutimmo all’unisono.
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