“I Beatles sono più famosi di Gesù Cristo”. La frase pronunciata da Lennon, che suscitò profonda indignazione soprattutto negli Stati Uniti, suona oggi per l’Osservatore Romano come la “spacconata di un giovanottone della working class inglese alle prese con un inatteso successo, dopo essere cresciuto nel mito di Elvis e del rock’n’roll”.
I tempi sono cambiati, per fortuna, ciò che quarant’anni fa scandalizzava l’opinione pubblica adesso la lascerebbe pressoché indifferente. Tuttavia l’organo di stampa vaticano la mette giù semplice, e sbaglia due volte: anzitutto non riporta correttamente la frase che all’epoca invece deplorò, e quindi minimizza il fenomeno di follia collettiva che essa scatenò in mezzo mondo.
Nel febbraio del 1966 John concesse un’intervista, una tra le tante, all’Evening Standard. Ad una domanda circa il suo parere sulla religione, rispose schiettamente com’era solito: << Il cristianesimo si ridurrà e scomparirà… in questo momento siamo più popolari noi di Gesù Cristo >>. Nulla contro di lui, precisò, erano i cristiani ad essere “duri di comprendonio”: << Sono loro che lo rovinano… >>. D’altra parte a John non era stata impartita alcuna educazione religiosa, da ragazzo aveva giusto fatto parte di un coro parrocchiale. Semplicemente non si occupava delle questioni riguardanti la fede: suonava e basta.
In Inghilterra l’osservazione passò inosservata, senza suscitare contestazioni: i sudditi di Sua Maestà sanno essere piuttosto pragmatici su questa materia (non per caso sono anglicani). Cinque mesi dopo però, proprio alla vigilia della tournée dei Beatles negli Usa, fu ripresa da Datebook, una rivista per adolescenti. E quella che era poco più di una divagazione venne riportata con un titolo chiaramente strumentale: John aveva affermato che i Beatles erano “più grandi di Gesù Cristo”.
Apriti cielo.
Già da anni la buona borghesia americana si grattava sconcertata i capelli ancora cortissimi ogni volta che sentiva nominare i Fab Four. Quella vasta maggioranza della classe media, timorata di Dio, dedita al baseball e al sigaro domenicale, aveva visto i propri figli cadere come pere cotte sotto la loro influenza. Si può perciò dire che aspettava soltanto un pretesto, e finalmente lo aveva trovato.
Manifestazioni di protesta vennero organizzate un po’ ovunque, ma soprattutto negli Stati del Sud: prima a Nashville, poi in Alabama, in Georgia, nel Texas. Istigati dal clero, dai politici, dalle stazioni radio, persino dal Ku Klux Klan, fanatici religiosi approntarono immensi falò degli album dei Beatles. Moltissime stazioni radiofoniche, da New York fino alla West Coast, misero al bando le loro canzoni. Intere comunità si riversarono nelle piazze per distruggere i dischi della “musica idolatra”. Non pochi pastori minacciarono di scomunica chiunque avesse assistito ai loro concerti.
Ma lo sdegno pubblico si scatenò su scala pressoché globale. Una censura ufficiale fu prodotta da diversi governi, tra i quali quello (razzista) della Repubblica Sudafricana e della Spagna franchista. E si scomodò pure l’Osservatore Romano, con tutto il proprio carico di autorevolezza: un articolo dal tono grave sosteneva l’opportunità “che certi argomenti non fossero trattati in maniera profana, nemmeno nel mondo dei beatnik”. Parole che, nello stile vaticano, significavano una condanna esplicita.
Brian Epstein, manager dei Beatles, si precipitò allora a New York con l’intenzione di annullare tutti gli spettacoli. Non era angosciato tanto per la loro immagine, quanto per la possibilità neppure così remota che corressero un reale pericolo di vita. Usando tutto il potere diplomatico di cui disponeva, Brian assicurò la stampa che John non intendeva apparire sacrilego, ma, al contrario, esprimere “profonda preoccupazione” per il declino dei valori spirituali nella società contemporanea. Una spiegazione traballante, ma sempre meglio di niente. E garantì che, quando i Beatles fosse sbarcati negli Usa, John avrebbe chiarito il proprio pensiero e chiesto scusa.
Cosa che avvenne il 12 agosto a Chicago, nel corso di un’affollatissima conferenza stampa. Pallido e teso, a causa delle lettere piene d’odio e delle minacce di morte ricevute, John riuscì solo a dire qualche parola: << Mi dispiace di aver aperto bocca. Io non sono anti Dio, anti Cristo e anti religione. Non avevo nessuna intenzione di fare delle critiche. Non volevo dire che eravamo più grandi o migliori… >>.
Cominciò così, sotto i peggiori presagi, quello che sarebbe stato ufficialmente l’ultimo tour dei Beatles.
Negli anni successivi John ne avrebbe combinate di tutti i colori, nel bene e nel male, ma evitò perlopiù di esprimersi pubblicamente su certi argomenti. Il viaggio in India del ’68 non gli portò alcun beneficio spirituale, anzi per tutta la vita gli rimase la sensazione che il Mahesh Maharishi Yogi l’avesse preso in giro. Cantò “God is a concept by which we measure our pain”, ma non fece più scandalo: era il 1970, i Beatles ormai divisi avevano subìto un brusco calo di popolarità. Imagine, con quel semplice tono umanitario, condensa invece la sua idea di religiosità naturale molto lontana da quella organizzata.
Si mise nei guai con l’Amministrazione Nixon, ma questa è un’altra storia.