La 25a ora è stato il primo film a parlare (seppure indirettamente) della tragedia dell’undici settembre. Il primo ad aver mostrato impietosamente le cicatrici luminose provocate dall’amputazione traumatica delle Twin Towers. Una parabola etica riflessa nello shock che la città continua a vivere, una favola metropolitana su un uomo (con un cane) alla ricerca di risposte alle mille domande che gli si sono ammassate nella mente. Domande che rimangono senza risposta negli occhi del padre, scivolano inquiete sul corpo della donna amata, rimbalzano sull’espressione di pietà degli amici d’infanzia, che (forse) trovano un qualche riscontro nel volto inespressivo del mafioso russo per cui spacciava. E che Monty (questo il nome dell’uomo) decide di non tradire, scegliendo di andare in carcere per sette anni, dove subirà probabilmente violenze di ogni genere.
La vicenda personale del protagonista trova risonanza nella città che gli sta intorno, la sofferenza riecheggia nel trauma che essa ha subito, per certi versi ancora oscuro ed incomprensibile. Il vuoto lasciato dalle Torri Gemelle è la metafora del vuoto spirituale in cui sono immersi i personaggi: un vuoto che va oltre i conflitti tra le diverse etnie, anzi le coinvolge e le accomuna. Dolore e rabbia si mischiano in modo confuso: il lutto deve essere tuttora metabolizzato.
Due sequenze restano scolpite nella memoria. L’interminabile giaculatoria di fuck you pronunciata da Monty contro immigrati, ebrei e neri, i quali tuttavia accompagneranno idealmente Monty nel suo ultimo viaggio verso il penitenziario. Come loro ha rinunciato ad ogni aspirazione, è stato diseredato dalla società, non può che condividerne la sorte. Quindi il pestaggio che subisce dall’amico broker, rappresentato in modo stilizzato – in sottofondo solo il cinguettio degli uccelli – a dimostrare l’indicibilità del dolore che è necessario per sopravvivere.
Ma il momento più commovente del film arriva nel finale, quando il protagonista allucina ciò che avrebbe potuto essere della sua vita mancata, ormai perduta. La venticinquesima ora del titolo, un’ora metaforica, che esiste solo come disperato tentativo di sfuggire ad un destino segnato.
Dietro ogni scelta estetica di Spike Lee c’è una forte motivazione etica. Per questo il film, che mette da parte per un momento le consuete rivendicazioni razziali, è così terribilmente bello e riuscito. Ogni tanto, in mezzo a tanto ciarpame, il cinema americano ci ricorda perché è diventato grande e per quale motivo non se ne può fare a meno. C'è sempre un Autore che dagli Studios indica una via, una direzione, una chiave di lettura comprensibile ad ogni linguaggio. È la chiave di volta con cui il cinema si è imposto come forma artistica d'eccellenza dell'era contemporanea.
Se ne esce con i visceri traboccanti di emozioni, di pensieri. Una domanda (anche questa senza risposta) aleggia inquietante: abbiamo ancora la possibilità e il tempo di cambiare il corso della nostra storia, personale e collettiva?
Dietro ogni scelta estetica di Spike Lee c’è una forte motivazione etica. Per questo il film, che mette da parte per un momento le consuete rivendicazioni razziali, è così terribilmente bello e riuscito. Ogni tanto, in mezzo a tanto ciarpame, il cinema americano ci ricorda perché è diventato grande e per quale motivo non se ne può fare a meno. C'è sempre un Autore che dagli Studios indica una via, una direzione, una chiave di lettura comprensibile ad ogni linguaggio. È la chiave di volta con cui il cinema si è imposto come forma artistica d'eccellenza dell'era contemporanea.
Se ne esce con i visceri traboccanti di emozioni, di pensieri. Una domanda (anche questa senza risposta) aleggia inquietante: abbiamo ancora la possibilità e il tempo di cambiare il corso della nostra storia, personale e collettiva?
La 25a ora di Spike Lee con Edward Norton, Philip Seymour Hoffman, Anna Paquin (Usa, 2002 , 134’) Sabato 13 dicembre, Rai1, ore 3,00