Imre Kertész, nato a Budapest nel 1929, fu deportato dapprima ad Auschwitz e quindi a Buchenwald, dove fu liberato nel 1945. Impiegò dieci anni per scrivere Essere senza destino, ma nessuno glielo pubblicò; quando finalmente uscì, era il 1975, l’autore venne messo al bando dal governo ungherese. Soltanto dopo la caduta del Muro di Berlino Kertész conobbe il successo che meritava. Ha ottenuto il Nobel per la Letteratura nel 2002 e gli è appena stato assegnato il Premio Grinzane Cavour.
Nel brano che segue, il protagonista descrive con sgomento il disfacimento del proprio corpo durante la prigionia, percepito sempre più come altro da sé.
Vorrei affermare che certi concetti li comprendiamo realmente solo in un campo di concentramento. […] Per esempio, non avrei mai creduto di potermi trasformare tanto in fretta in un vecchio raggrinzito. A casa ci vuole del tempo, almeno cinquanta, sessanta anni: qui tre mesi erano bastati perché il mio corpo mi piantasse in asso. Posso dire che non c’è niente di più increscioso, niente di più avvilente, che constatare giorno dopo giorno, mettere in conto giorno dopo giorno che un altro pezzo di noi è deperito. A casa, anche se non ci avevo prestato particolare attenzione, vivevo più o meno in armonia con il mio organismo, questa macchina, per chiamarla così, mi piaceva. Ricordavo una domenica pomeriggio, quando nella penombra della stanza leggevo un romanzo avvincente e intanto, piacevolmente distratto, mi accarezzavo con la mano la pelle elastica e liscia e la peluria dorata che si stendeva sopra i muscoli delle mie cosce abbronzate. Quella stessa pelle adesso pendeva floscia e grinzosa, era gialla e avvizzita, coperta da ogni sorta di piaghe, aloni marroni, lesioni e screpolature, rughe e squame che, soprattutto tra le dita, procuravano un prurito fastidioso. “Scabbia”, constatò Bandi Citrom quando gliele mostrai e annuì come uno che se ne intende. Io non potevo fare altro che stupirmi per la rapidità, per il ritmo forsennato con cui lo strato coprente, l’elasticità, la carne abbandonavano le mie ossa, si scioglievano, marcivano fino a scomparire del tutto. Ogni giorno venivo sorpreso da qualcosa di nuovo, da un nuovo difetto, da una nuova oscenità che colpivano questo oggetto sempre più strano, sempre più estraneo, che pure era stato un buon amico: il mio corpo. Non riuscivo più nemmeno a osservarlo senza provare un sentimento ambiguo, un brivido di orrore; per questo con il passare del tempo non mi spogliai più, non mi lavai più […].
(Imre Kertész, Essere senza destino)