"Concederò loro, nella mia casa e dentro le mie mura, un luogo e un nome". (Isaia, 56,5)
Il Monte Hertzl, chiamato anche Har ha-Zikaron, colle della rimembranza, segna il limite occidentale della Gerusalemme moderna. Con i suoi 837 metri rappresenta il punto più alto della città e costituisce uno spazio che incarna la storia più recente dello Stato di Israele. Non lontano da qui, sull’altura di Giv’at Ram, sono situati i palazzi amministrativi, la Corte Suprema e la Knesset.
La sommità del colle è occupata dagli edifici che formano lo Yad Vashem, consacrato ai sei milioni di vittime della Shoah. Yad Vashem significa in ebraico un luogo e un nome, a testimoniare l’unicità di ogni persona morta nei lager nazisti. La struttura ha l’aspetto di un gigantesco prisma e, ad uno dei vertici, è stato collocato un vagone ferroviario simbolo della deportazione di massa verso i centri di sterminio. Il vasto parco circostante, naturale espansione della Jerusalem Forest, accoglie tra cedri e conifere alcune sculture dedicate alla Shoah da importanti artisti contemporanei.
Giungo a Yad Vashem nel tardo pomeriggio del 30 dicembre 2004, dopo aver percorso l’ampia e trafficata Sderot Herzl. L’aria del tramonto è lucente e lascia presagire una stellata emozionante. Lungo la schiena avverto i primi brividi causati dalla rapida escursione termica giornaliera, caratteristica del Vicino Oriente in questa stagione. In Italia pare stia nevicando, ma oggi a Betlemme eravamo sui 24 gradi centigradi. Srotolo le maniche della camicia e indosso un maglioncino leggero ma caldo.
All’ingresso, un militare di guardia mi sollecita bruscamente a riporre la videocamera nello zaino. La divisa e il fucile a pompa gli conferiscono un aspetto truce ma avrà sì e no vent’anni. Lo sguardo, ad un tempo duro e sfinito, è il medesimo dei colleghi che al check point di Gerico hanno perquisito l’autobus sul quale viaggia il gruppo di cui faccio parte.
La Hall of Remembrance è una costruzione in cemento armato che richiama la struttura di una tenda. Qui, nell’oscurità, rischiarata dalla fiamma di un braciere, sono scolpiti nel suolo i nomi dei ventidue principali campi di concentramento dislocati in Europa.
Di Dachau, trenta chilometri da Monaco di Baviera, conservo un ricordo sbiadito, nonostante l’abbia visitato solo qualche mese prima. Come se l’immensa superficie su cui si estende fosse troppo dilatata per dare consistenza a tutto quell’orrore. Molto più impressionante il piccolo KZ-Lager di Mauthausen, costruito su un colle verdeggiante ad est di Linz. Qui, per la prima volta, vidi le baracche, le celle e le camere a gas, toccai con mano i forni crematori. Sotto un cielo gonfio di pioggia percorsi la scala della morte che portava alla cava di granito, dove gli internati erano costretti ai lavori forzati. E compresi che, qualora si cerchi di penetrare con la mente la tragedia della Shoah, si rischia realmente di perdere la ragione.
L’edificio che ospita gli Archivi Centrali dell’Olocausto custodisce circa cinquanta milioni di documenti e nella Hall of Names sono registrati i nomi di tre milioni di persone che persero la vita. Mi sento smarrito. Sono cifre che nella loro asettica enormità rischiano quasi di perdere senso. Devo pensare a quelle carte impilate le une sulle altre, calcolarne il peso, il volume che possono occupare, figurarmi volti e corpi affiancati in fila, provare a contarli uno per uno.
Cammino per la Valley of Destroyed Communities, dove sono incisi nella pietra scura i nomi di cinquemila persone appartenenti alle comunità ebraiche di ventidue Paesi. Un attimo di respiro prima di giungere al Children’s Memorial, un pugno violento sferrato dritto al cuore.
Il sacello fa memoria di quel milione e mezzo di bambini che “passarono per il camino” delle camere a gas. Cinquecento specchi fissi alle pareti riflettono per un lungo corridoio la luce di cinque candele, moltiplicandone l’immagine all’infinito. Nel silenzio ronzante dei pensieri riecheggia una voce amplificata che scandisce lentamente i nomi di tutte le piccole vittime. È una litania ipnotica che mi accompagna passo dopo passo, soffocante, impregna la coscienza di sentimenti di colpa impenetrabili. Colgo qualcosa di ricattatorio in questa rappresentazione scenica che intende deliberatamente colpire basso, ma non riesco a sottrarmi al dolore ancestrale che riesce ad evocare.
Solo all’uscita, smaltita a fatica la fascinazione, mi si sovrappongono i visi dei bimbi palestinesi di Gerico che ho incontrato appena due giorni fa. Scalzi, addosso gli indumenti fuori misura forniti dalle ONG, si disputavano penne biro e dolcetti. Occhi scuri senza un sorriso, la mano tesa meccanicamente, una dimestichezza fredda diventata abitudine che commuove e fa rabbrividire.
Dopo la doverosa visita al Museo Storico dell’Olocausto, che ospita un’esposizione permanente, percorro il viale intitolato ai Giusti delle Nazioni che riconduce infine all’autobus. Qui ogni albero rende onore ai Gentili che coraggiosamente soccorsero gli ebrei durante il nazismo. Dovrebbe rammentarci che gli uomini sono capaci anche di gesti di vita, ma adesso riesco soltanto a pensare che, per i popoli che abitano questa terra sospesa tra guerra e pace, il futuro non è mai migliore.