
“Quando mia figlia è caduta in coma è tornata a essere una bambina, più fragile e vulnerabile di un neonato, perché non poteva piangere, muoversi, deglutire o manifestare dolore. Paula era ritornata nel mio ventre, come prima di nascere. Ho cominciato a vivere come se lei fosse dentro di me. Era un processo naturale, come la gravidanza, solo che non ci separava la nascita, ma la morte, inevitabilmente. […]
Portai via Paula dalla Spagna perché, tra le altre cose, speravo di trovare una cura per lei negli Stati Uniti. Ma subito compresi che per mia figlia non c’era più alcun aiuto umano. Questo avvenne nel maggio 1992. Dopo un mese in California, dove fu sottoposta agli esami più accurati, i medici suggerirono di ricoverarla in una clinica per malati terminali, perché non si poteva fare più nulla. […] L’idea mi parve inaccettabile. Organizzammo un ospedale domestico al primo piano per dare a Paula le cure di cui aveva bisogno, contattai tre donne perché facessero i turni per aiutarla […]. Anche la famiglia si dava i turni per assisterla, tutti uniti. Contavamo su una dottoressa eccezionale, Cheri Forrester. Dopo aver visto Paula e studiato le cartelle dell’ospedale di Madrid e della clinica americana, mi chiese: “Che cosa pretende che io faccia?” Mi aiuti a farla vivere senza dolore, comoda e tranquilla, e, quando arriva il momento, l’aiuti a morire, le risposi. […]
Le crisi di porfiria sono terribili. Le fitte al ventre e l’angoscia possono essere insopportabili. Decidemmo con Ernesto, suo marito, che se ci fosse stato un altro attacco le avremmo dato tutta la morfina necessaria per evitarle sofferenze, ma ci dicemmo pure che, se Paula avesse contratto un’infezione, per esempio una polmonite, frequente nei pazienti immobilizzati, non l’avremmo curata, non l’avremmo mandata un’altra volta in ospedale, non le avremmo dato antibiotici, l’avremmo lasciata morire in pace. […]
In settembre cominciai ad accettare l’idea che avrei avuto davanti molti anni con Paula in quello stato, che si trattava di un processo assai lento e doloroso, che dovevo risparmiare le mie forze o sarei morta prima di lei. Non avevo un obiettivo finale, solamente il lento tragitto della vita verso la morte. Ma mi aggrappavo al suo corpo e provavo una certa felicità nell’abbracciarla, curarla, metterla sulla sedia a rotelle e portarla in terrazza a prendere il sole… Poi è cominciato il freddo invernale e ovviamente non potevo farla uscire, allora la mettevo nella sua stanza riscaldata e le facevo ascoltare musica, mi sedevo al suo fianco a leggerle poesie, a raccontarle il passato. […]
Gli occhi si facevano sempre più opachi, diventava sempre più difficile percepire qualche segno; se ne andava dall’interno, come se si tagliassero a uno a uno i fili che la univano alla realtà e alla vita. A metà novembre smisi di pregare affinché vivesse e cominciai ad augurarmi che morisse dolcemente. Venne Ernesto, suo marito, a trovarla da New York. Quando veniva a trovare sua moglie le portava sempre regali, profumi, abiti sportivi che lei amava… Era tanto commovente vedere la ferma certezza dell’amore di Ernesto per mia figlia! La metteva sul pavimento appoggiata a cuscini e si sdraiava al suo fianco a dormire nel pomeriggio. Sembravano una coppia di innamorati, profondamente addormentati… ma da vicino vedevo i segni delle lacrime sulle guance di mio genero.
[…] Compresi che quell’uomo avrebbe potuto passare anni legato a una donna che era un cadavere vivente; parlai con lui per convincerlo a staccarsi da lei, ad andarsene lontano, a rifarsi la vita. Gli spiegai una volta di più ciò che già sapeva, ma che il suo cuore negava: che Paula non avrebbe mai più avuto una vita cosciente, non avrebbe potuto godere nemmeno della vista dei passeri o dell’aria fresca; che non sapeva dov’era e con chi, visto che ormai non apparteneva a questo mondo. Lasciala andare, Ernesto, lo supplicai, mi hanno detto che, quando non cede, la persona agonizza eternamente e non può morire, perché è come ancorata. Alla fine Ernesto, piangendo, accettò. Il giorno successivo andammo entrambi nella camera di Paula e ci chiudemmo a chiave, l’abbracciammo e le dicemmo che se ne poteva andare, che noi stavamo bene e saremmo stati bene, sempre molto uniti a lei nello spirito, che non l’avremmo mai dimenticata, che se ne andasse per favore, perché non poteva più restare aggrappata al suo corpo e per tutti noi era una sofferenza intollerabile vederla così. A partire da quel giorno in Paula ci fu un peggioramento notevole. Forse era cominciato prima e io non avevo voluto vederlo. Notai sintomi che non avevo osservato prima… Sei giorni dopo morì”.
(Isabel Allende, Il mondo di Isabel Allende, a cura di Celia Correas Zapata)
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