In Lc 13,1-5, la gente chiede a Gesù di commentare un avvenimento recente: il crollo di una torre nei pressi dell’acquedotto di Siloe, che aveva causato numerose vittime. Il suo pensiero contraddice un’interpretazione comune: sofferenza e morte violenta sono il castigo di Dio per i peccati che la persona ha commesso. Risponde infatti: “... Quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”.
Una replica inequivocabile, dunque.
Ma non è tutto. Facciamo attenzione alle parole.
Gesù lascia intendere che la morte, svincolata dall’antropocentrismo, non è in assoluto un fatto così importante. In qualunque modo avvenga, anche il più tragico e doloroso, essa rientra tra gli eventi naturali nella vita di ognuno. Ne è la semplice conclusione materiale. Siamo esseri unici e irripetibili, vero, il valore e la dignità umana risiedono anche in questa originalità: ma la nostra presenza fisica nel mondo va collocata secondo una prospettiva più ampia.
Nel discorso di Gesù l’elemento fondamentale è invece la conversione, intesa nel senso etimologico del termine. Quindi non il pentimento per i peccati commessi e la penitenza riparativa, come suggeriscono certe brutte esegesi moraliste; bensì il cambiamento individuale, la trasformazione radicale, il processo di maturazione che gli eventi esistenziali, positivi e negativi, devono operare in noi.
Subito dopo, infatti, (Lc 13, 6-9) Gesù racconta questa parabola: “Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno? Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai ”. La metafora mi sembra chiara: un Io che non ha acquisito competenze appare fragile e infruttuoso, per sé e per gli altri.
Occorre che ciascuno - qualunque sia il credo alla luce del quale si muove - impari a leggere, a rielaborare e trarre indicazione dai segni dei tempi. Cosicché essi diventino il più possibile trasparenti e contribuiscano a produrre un rimaneggiamento interiore, un’evoluzione della personalità.