Copacabana e il Mocambo, vamp sotto le stelle del jazz, il fumo di una sigaretta, Parigi e impermeabili. Tutto filtrato attraverso le brume monferrine, che di questa stagione inzuppano i fossi; e oltre i tetti delle cascine, le dolci ondulazioni dei bric, dietro le curve della statale, si annusa già il mare di Genova. I cinematografi proiettano vecchi sogni americani, mentre fuori si vive una quotidianità fatta di poco clamore, abitudini radicate, scontrosità e improvvise bizzarrie. Nelle canzoni prendono corpo piccoli bozzetti sonori che scorrono con il fruscio della pellicola. Fats Weller, Tom Waits, Cole Porter, Jacques Trenet. Paolo Conte. La voce di catrame sprofondata tra rumba e milonga, dita nodose tra i tasti bianchi e soprattutto neri, l’elegante ispirazione strumentale. Attorno al pianoforte si costruisce il collage dei fiati e delle chitarre, scandito dal ritmo frusciante delle spazzole. Sono racconti per immagini, sequenze di rime, assonanze, onomatopee, atmosfere rarefatte in cui l’ascoltatore si tuffa rapito. L’evocazione ammiccante di un mondo sconosciuto e lontano, eppure così inspiegabilmente familiare. Per questo così affascinante.