No, macché…
I miei sono scarabocchi appuntati su pezzi di carta volanti che infilo in mezzo ai libri o all’agenda. Che poi non trovo più, dimentico del tutto, o non riesco a decifrare, tanto che ho scritto male. Non capire se stessi è dura…
E poi, sapessi. Ho bisogno di un sacco di tempo per metter giù qualche frase di senso compiuto. Persino la nota della spesa. Con un biglietto d’auguri vado in crisi – non ridere, è vero. Nei miei assoni ci sono i limiti di velocità e l’autovelox incorporato. Come un bimbo col pongo, manipolo le parole sino all’esasperazione e m’impiastriccio tutto. Le giro e le rigiro, alla ricerca di una logica che talvolta sfugge pure a me. Si capirà o no ciò che voglio dire? E quante frasi spezzate lasciate a spenzolare nel vuoto. Via, via, tagliare, cucire. Sembro mia nonna con la Singer. Poi, la fissa del bon mot. E la fatidica battuta finale. Mica sarebbe sempre necessaria, no? Però, per una bella chiusura, sarei disposto a tirar sotto mia madre con la macchina (si fa per dire, mamma, eh!).
Tu invece, no.
La parola giusta al momento giusto.
Tàc.
Hai detto niente.
Questione d’esercizio. Diceva la prof di lettere: tenete un diario... E io giù a scrivere di scuola, di partite a pallone, di ragazze, batticuori, di malinconie leopardiane e guizzi futuristi. Sempre caro mi fu quest’ermo zang tumb tumb. A vivere ci pensavo poco. O meglio, ci pensavo per trarne spunti letterari. Grandeur adolescenziale. La vita come un romanzo a puntate senza fine.
Questione d’esercizio, appunto. Frasi brevi, mi raccomando. Siate semplici. Soggetto, predicato, complemento. Chiarezza, soprattutto. Alla maturità feci un bel tema. La questione meridionale. Ciò che conta, però, è che scrissi in scioltezza, divertendomi pure un sacco. Un commissario esterno chiese: perché usi tutti questi “comunque”? E io, pronto: come intercalari. Ma sapevo quel che dicevo? Comunque sia, io comunque lo trovo ancora bellissimo – anche se non si dovrebbe mai cominciare una frase con comunque.
Tu, invece, niente.
Scrivi spedita come l’ES Milano-Roma. Sferragliar di rotaie, dritta alla meta senza esitazioni. Parole in perfetto equilibrio tra loro, come un giocoliere sulla fune, un acrobata sui trampoli. Stile femminile, piglio maschile. La dolcezza e la passione. Il dolce e il secco. La sostanza e la classe. Neeskens e Cruijff (questa non la capirai, ma non importa).
Che ci vuole…
Che ci vuole?
La tua sì che è abilità. Pratica e padronanza della lingua. La propensione che si fa talento.
E io a far giri e giri su me stesso, a trovare un aggettivo appropriato, qui ci vuole un avverbio, lì c’è bisogno di un’ulteriore scansione, un sinonimo – il mio regno per un sinonimo (no, non esistono i sinonimi!) E quante ripetizioni. Mio, mi, me, ma, anche, però. Ohibò. Che disperazione nasce da una distrazione… Infine la rilettura, il redde rationem. Su carta, perché lo schermo sbrilluccica, confonde la vista, e io sono nato tra le pagine dei libri. Aggrotto la fronte. No, ancora non va. Non mi piace. Correzioni veloci, righe su righe, la matita spuntata. Limare, limare. Con quel che ho da fare, mi sono arenato qua. Mah. Poi il dubbio: non avrò dimenticato qualcosa, che me lo sogno stanotte e tiro giù due accidenti?
Eh no, posso farci ben poco: i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo. Se era vero per Wittgenstein, figurati per me...
(Autunno 2004. Da un’e-mail mai inviata)