Intendiamoci sulle parole. L’obiettività non esiste: ciascuno di noi cresce educato a certi valori, possiede interessi e passioni, ha insomma una personale visione del mondo che influenza il proprio metro di giudizio. Un giornalista non può raccontare i fatti in modo neutro e neutrale. Può farlo però con imparzialità: attenendosi ad essi, verificando e confrontando le fonti, descrivendoli nel modo più completo e comprensibile al pubblico. Certo: la sua personalità lo porterà ad attribuire diversa importanza a questo o a quell’aspetto, a filtrare le situazioni secondo la propria sensibilità, la cultura e le idee che manifesta. Ma ciò è normale, quando avviene in buona fede.
Dai media dobbiamo dunque pretendere l’imparzialità. Tanto da quelli di Destra che da quelli di Sinistra.
Non si può tuttavia dire che, in questo particolare periodo storico più di altri, gli esempi di imparzialità siano frequenti. Al contrario, la malafede imperversa un po’ ovunque. Soprattutto quando si tratta di ignorare i fatti: quando una notizia non viene data, essa non esiste. Oppure quando si gonfiano, si manipolano, si usano come schermo per nasconderne altri, addirittura si creano ad arte. Senza i fatti, le opinioni sono aria fritta: si può sostenere tutto e il contrario di tutto. È il principio della disinformazione. Lo scopo è chiaro: condizionare i giudizi dei cittadini, impedire che sviluppino convincimenti consapevoli, quindi di scegliere ad occhi aperti. Ed è questo ciò che sta avvenendo, da parecchio tempo, sempre più spudoratamente.
Non è in pericolo dunque la libertà di stampa, ma l’esistenza di una stampa imparziale che informi in modo libero.
Aveva ragione Longanesi: non è la libertà a mancare, ma gli uomini liberi.
Ogni mattina il buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno, sosteneva dal canto suo Benedetto Croce. Mi sembra invece che tanti giornalisti si preoccupino soprattutto di compiacere qualcuno.