
Tutti uguali, i filosofi. Lui sta lì, in silenzio, gli occhiali puntati nel vuoto (ci vede o non ci vede?) e ogni tanto si passa le dita tra i capelli bruni. Siamo gli unici nell’aula a indossare la camicia (bianca la sua, a sottili righe azzurre la mia), in mezzo a un esercito di felpe. Dopo una decina di minuti, si schiarisce la voce ed esordisce con un
dunque dentro il microfono che mi rimbalza indietro nel tempo. Alla prof di filo del liceo. Entrava in classe tutta traballante, si accomodava alla cattedra, vi piantava su i gomiti, prendeva il capo tra le mani, gli occhi bassi, e rimaneva così, assorta, l’aria imbambolata. Quindi si alzava, faceva il giro dell’aula, si appoggiava alla finestra, sfilava meditabonda un piede dalla scarpa e lo accavallava all’altro. Infine, come tirando le somme di quel misterioso soliloquio interiore, sospirava con tono sofferto:
perciò. Quando andai al suo funerale, non potei evitare di credere che, forse, si era soltanto incantata appena più a lungo del solito; e a un certo punto, nel bel mezzo della cerimonia, sarebbe uscita dalla bara esclamando:
perché, se non avete capito Platone, non avete capito niente.
Tutti uguali i filosofi, penso ancora. Guardo intorno i banchi che vanno a riempirsi di felpe, e anch’io mormoro: perciò.
(Dedicato alla professoressa L.P.)