(Primavera 2003)
La chiamo d'istinto, come si apre la finestra di una stanza in cui l’aria è viziata. A ripensarci il gesto pare assurdo, contrario alla mia consueta riservatezza. Non ho nulla che mi giustifichi, potevo lasciarla andare inavvertita sul fondo della piazza.
Risponde una voce allegra, per la sorpresa o altro che non so. Mi riconosce subito, e già questa è di per sé una gran cosa, dopo tutto questo tempo. “Sei tu”. Aggiunge alcune espressioni che parlano di contentezza. Tutto normale, come quando non c’è uno scopo e si può andare in scioltezza.
Entriamo nel bar accanto al Conservatorio, ci accomodiamo a un tavolo vicino a dei ragazzi che si accalcano per raggiungere un panino, e ordiniamo qualcosa. È pomeriggio tardi: un aperitivo, di quelli un po’ miseri, con le patatine e i pistacchi.
La osservo mentre addenta un tramezzino, tratta dolcemente il boccone coi denti e la lingua, lo scioglie e lo inghiotte. Ripenso a quante cene con una semplice coppa di gelato, e glielo dico. Lo sguardo allusivo lascia intendere che sta riandando proprio a quella sera di fine luglio, al Parco Europa. Dieci anni fa. Avevamo cercato un posto da dove, tra gli arbusti, si potesse osservare la città illuminata. Eravamo rimasti zitti per un po’, come in attesa di qualcosa. Ad un certo momento, uno dei due aveva preso per mano l’altro. Poi ci eravamo baciati. A lungo.
Sarei un ipocrita se ora mi dichiarassi innocente. Avevo fatto in modo che le cose procedessero così, discretamente, senza fretta, senza insistere. Del resto, era diventato chiaro che anche lei se l’aspettava. Non era mica una sprovveduta. A venticinque anni certe faccende si sanno già in partenza. Ti piace un coetaneo, lo vedi tutti i giorni, stesso corso, ci vai a pranzo, accetti qualche invito ad uscire. Beh, prima o poi ci proverà. Lui ha una ragazza, vero, ma la loro relazione è agli sgoccioli, non si vedono quasi più. Non solo sai come andrà a finire, anzi ci speri pure. Un’intera estate da sola: e chi te lo fa fare. Meglio un uomo a metà che nessun uomo.
Questa frase l’aveva pronunciata lei, senza imbarazzo né scrupoli, e gliela vedo ancora stampata tra gli occhiali e la bocca socchiusa. Con un piede le sfioro accidentalmente le gambe: gambe nude, asciutte, fatte per l’atletica, non per uno slancio sensuale. Eppure mi aveva preso. O ero stato io a prendere lei. Chissà. Sarei curioso di ascoltare la sua versione.
C’eravamo comunque spinti abbastanza in là per poter fare ancora finta di niente, sebbene non lo ammettessimo apertamente. Alle fine accadde ciò che, di solito, accade tra un uomo e una donna che si desiderano. Con assoluta naturalezza. “Facciamolo”, aveva detto qualche sera dopo. “Facciamolo”, risposi io senza pensarci. Non mi chiedeva niente, e niente dovevo prometterle. Nessun impegno, nessun legame. Amore, amicizia erotica, curiosità sessuale: che importanza avevano le definizioni, le dichiarazioni, le spiegazioni. Persino quella concezione moralistica che imponeva un significato all’atto fisico, retaggio della mia educazione, si dissolse nel nulla. Stavamo bene insieme, come amici e come amanti, era questa l’unica cosa a contare. Esisteva solo il presente, da cui ci sentivamo in diritto di ricavare un piacere sottile, impudente, appagante. Faceva caldo quell’estate e le domande non venivano spontanee. La coscienza giaceva rilassata nel basso ventre, le carezze che ci facevamo assopivano i pensieri.
D’altro canto non fu nemmeno difficile separarsi. Un sabato di primo autunno lei telefonò e io, non ricordo perché, rifiutai l’appuntamento con una scusa. Si mostrò risentita, forse disse anche qualcosa di brutto. Fatto sta che mise giù e non richiamò. I giorni trascorsero e io lasciai perdere, così, senza riflettere. Non so se per superficialità o cattiva coscienza. Sapevo di averla ferita, che avrebbe interpretato la mia perdita di interesse come un fallimento. La verità era che le volevo bene, ma non abbastanza. E me ne vergognavo.
Ci liberiamo dalla gente rinchiusa nel bar con un movimento agile, di ballo, che lei continua da sola sul marciapiede. Si è fatto buio, la strada lucida di pioggia appena cessata.
Si ferma e si gira.
Le sue labbra si aprono e toccano le mie in un bacio svelto, leggero. Sento il suo alito che sa di sigaretta. Questione di un attimo. Negli occhi le riconosco un’espressione dolce ma ironica: sa di aver scosso la mia sicurezza, ne è visibilmente compiaciuta. Mentre si allontana, si volta ancora, di scatto, e fa un cenno con la mano aperta.
Rispondo al saluto, meccanicamente.
Mi ha assalito la nostalgia per le donne che ho avuto finora. E capisco che potrò amare solo più i miei fantasmi.
(A Donatella)
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