All’inizio furono la Beatlemania, la Swinging London, Carnaby Street e la Mini Minor. Quindi la Op Art, la Pop Art, la Beat Generation, il Free Cinema. Ci furono JFK, Chruščëv, Castro, il Che e il presidente Mao. Ci furono Martin Luther King, Malcolm X, Bobby Kennedy e Marylin. Ci furono i Beatnik, i Figli dei Fiori, il Maggio, Woodstock, lo Sputnik e Apollo 11. Ma ci furono anche Praga, il Muro, il Vietnam.
Anni ’60. Lasciate alle spalle le ristrettezze economiche e alle prese con un crescente benessere, la società postbellica si trovò ad affrontare un cambiamento radicale che l’avrebbe trasformata. Un’intera generazione si mise in marcia e cominciò a far sentire la propria voce, a contestare il mondo dei propri padri, a smuovere le coscienze. Dietro gli slogan stavano gli ideali – prima ancora che l’ideologia. Fate l’amore non la guerra, mettete dei fiori nei vostri cannoni. Vagheggiamenti velleitari fin che si vuole, tuttavia pregni di autentica speranza in un mondo migliore che, allora, pareva davvero a portata di mano.
Solo nei Favolosi Sixties avrebbe potuto collocarsi la vicenda calcistica e umana di George Best, la sua folgorante ascesa, l’altrettanto rapido declino. Passò giovanissimo dal Creghag Boy's Club di Belfast, città natale, al Manchester United: era il 1963, e per un lustro giocò a livelli eccelsi, raggiungendo il punto più alto della parabola nel ‘68 quando vinse Coppa Campioni e Pallone d’Oro. Quindi divampò la crisi: la progressiva dipendenza dall’alcol, gli investimenti sbagliati, le risse con i compagni, le polemiche con i dirigenti, fino alla perdita del posto in squadra. Non gli rimase che emigrare nell’American League, a terminare la carriera nell’anonimato.
“Bestie” fu una meteora che non lasciò scia: già nel 1973, quando ancora bambino iniziavo ad appassionarmi di calcio, di lui non si parlava più. Finito. A 27 anni. Fu però un fuoriclasse vero, con una gran visione del gioco. Egocentrico e talentuoso, estroso e ribelle, elegante e anarchico. Erano tempi in cui il tatticismo di squadra non soffocava la genialità del singolo: più che gli schemi contavano piuttosto i piedi buoni e il cervello fino, la tecnica e la fantasia. Al potere, almeno nel football.
Genio e sregolatezza, si potrebbe dire abusando di un luogo comune. Qualcosa di più, direi. Da un lato la volontà di emergere di chi è sicuro dei propri mezzi, conscio del proprio talento. Dall’altro il mito che divora se stesso, in un furore autodistruttivo che ha pochi eguali. Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix e Jack Kerouac sono i soli che mi vengono in mente.
Altri tempi, certo, ben lontani dalla gestione manageriale del successo che s’impose nei dimenticabilissimi decenni successivi.
Best, il biopic di Mary McGuckian, non è un film eccezionale: è un prodotto decoroso, un filo sotto la media della cinematografia britannica attuale. Appare tuttavia interessante la ricostruzione della cosiddetta Era Wilson, efficace nel riprodurne l’atmosfera febbrile e trasgressiva. Un’epoca in cui essere giovani sembrava già un valore e giustificava ogni eccesso. I soldi, le donne, il sesso facile, le auto veloci. E anche l’alcol, le amfetamine, l’erba, la dietilamide dell’acido lisergico.
Una storia accomunabile per certi versi al primo, unico, autentico beat che ebbe il calcio italiano, ovvero Gigi Meroni. Ala destra del Torino, portava capelli lunghi e basettoni, vestiva alla moda di Carnaby Street, conduceva una vita bohémienne tra donne e motori. Chi lo vide giocare, però, ne racconta ancora oggi con trasporto l’estro, la tecnica e l’intelligenza. Avrebbe dovuto passare alla Juventus e, probabilmente, ottenere così la consacrazione definitiva. Finì investito da un’auto nel tardo pomeriggio di un piovoso autunno subalpino del 1967.
Ormai sfatto dall’alcol, da eccessi e sventure, Best invece sopravvisse a se stesso per alcuni anni facendo il commentatore sportivo, ai margini di quel campo da gioco che l’aveva visto protagonista. Gli dèi del pallone, impietositi, se lo portarono via nel 2005, nemmeno sessantenne, consunto dalla cirrosi epatica e da un inutile trapianto di fegato. “Don’t die like me” le sue ultime parole. Però che storia…
Best, di Mary McGuckian, con John Lynch, Ian Bannen, Jerome Flynn (Gb, 1999,102’). Sabato 29 maggio, Italia1, ore 3,40
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