L’8 maggio 1970 veniva pubblicato l’ultimo album dei Beatles, Let it be. Titolo profetico, dal momento che i Fab Four avevano lasciato stare già da un pezzo. Il progetto del disco, e del film-documentario ad esso collegato, era vecchio di un anno e aveva subito una lunga serie di vicissitudini. Tra l’inizio delle registrazioni, gennaio 1969, e la data di pubblicazione erano nel frattempo trascorsi mesi di litigi, dissapori personali e beghe legali. In mezzo, la meravigliosa parentesi sospesa di Abbey Road, l’ultimo lavoro in studio, realizzato durante l’estate del ‘69. Già nell’autunno John aveva annunciato ai compagni che intendeva andarsene; ma fu Paul a comunicare pubblicamente la notizia in occasione del lancio della sua prima prova da solista, tre settimane avanti l’uscita di Let it be.
Let it be avrebbe dovuto segnare un ritorno alle radici (Get back il titolo originario del progetto), la riscoperta dell’entusiasmo e della vitalità iniziali. La caratteristica principale doveva essere la registrazione delle canzoni in presa diretta, rinunciando alle ricercate tecniche utilizzate da Rubber Soul in avanti. Ma il gruppo era ormai in pieno dissolvimento, e il fatto che tre furono le persone accreditate per la produzione può bastare a indicare le traversie. La produzione originale fu, come sempre, di George Martin. I Beatles ascoltarono appena una parte di tutte quelle ore di prove, improvvisazioni e discussioni: nessuno di loro rimase soddisfatto. Anzi, per una volta restarono tutti d’accordo nel trovare il lavoro disomogeneo, privo di direzione, decidendo che sarebbe stato opportuno abbandonarlo definitivamente. La Emi aveva però impegnato un capitale notevole, tanto per il disco quanto per la realizzazione del film: dunque riesumò i nastri, rimasti sepolti per mesi negli studi di registrazione, e li affidò a Glyn Johns per il mixaggio definitivo. A quel punto entrò in scena Phil Spector, prestigioso produttore americano, noto per la tecnica detta muro del suono – e anche per il gusto pomposo degli arrangiamenti. Egli si offrì di svolgere quell’operazione di cernita e montaggio cui i Beatles erano ormai indifferenti, al fine di realizzare un prodotto commerciabile.
Come fece notare la rivista Rolling Stone, la discutibile seppur competente riconfezione indirizzò il proposito originario (“I Beatles allo stato naturale”, lo slogan) nella direzione opposta. L’introduzione in alcuni brani di sovraincisioni melodiche e ritmiche, di archi e coretti femminili, diede un risultato artificioso oltremisura: la semplicità, che avrebbe dovuto rappresentare il valore aggiunto di Let it be, fu quasi totalmente ripudiata. Paul ha sempre sostenuto di non aver mai avuto la forza di ascoltare due volte la sua The long and winding road appesantita da cori celestiali e violini barocchi. Ma l'eccessiva rielaborazione di Spector si sente anche in Across the Universe e nella stessa Let it be. All’ascoltatore rimane dunque l’impressione di un lavoro sostanzialmente incompiuto. La qualità risente della mancanza di applicazione da parte dei Quattro. Tuttavia è un documento di grande interesse.
Let it be non riflette la ricchezza di tutto il materiale musicale che fu messo in cantiere: paradossalmente, con le sue dodici canzoni, è l’album più breve della loro storia. I Beatles registrarono molti più brani di quelli effettivamente presenti nel disco. Quelli non pubblicati finirono in svariati bootleg che circolarono negli anni ’70 e ’80 per la gioia di fans e collezionisti; oggi si possono tranquillamente reperire su Youtube. Per quanto la situazione del gruppo fosse caotica e nessuno più condividesse la visione ottimistica di Paul, molta della musica registrata durante le prove è sorprendentemente pregevole.
I momenti più felici dell’album (e del film) restano quelli del concerto sul tetto della Apple in Savile Row, nel centro di Londra. In quel 30 gennaio 1969 battuto dal vento, i Beatles furono i Beatles per l’ultima volta. Paul, con il suo completo da uomo d’affari, era finalmente ciò che aveva sempre voluto essere: il leader della band. John, capelli lunghi e pelliccia nera, suonò la sua Gibson con raro abbandono. George, scarpe da ginnastica e baffi neri, sorrise come non faceva da tempo. Ringo, avvolto in un impermeabile rosso, tenne insieme ancora per un istante la musica e gli altri membri del gruppo. The one after 909, I’ve got a feeling, Two of us, Maggie Mae, Get back. Al termine, la voce di John: “Vorrei dire tante grazie a tutti quanti da parte del complesso e da parte mia, e spero di aver superato l’audizione”.
I Beatles avevano superato audizioni da un bel pezzo. Hanno saputo vincere anche la prova del tempo.