In questo piano sequenza ci sono io, che corro palla al piede lungo l’out sinistro. È una mattina di pieno sole, inondata dal profumo e dai colori del mese di maggio, e ho undici anni. Sulla manica corta della maglietta bianca porto un nastro di stoffa rossa, perché sono il capitano della squadra della mia classe, la quinta A, che si chiama Dribbling. Nostra avversaria è la Lander 10, composta dai ragazzi della sezione B. Si gioca al campo Giannone, lo chiamano tutti così, un ampio sterrato con due porte da calcio bianche situato lungo viale Michelotti, tra corso Casale e il Po. Alle nostre spalle la scuola elementare Beata Vergine del Pilone; poco lontano alcune baracche che di lì a poco, siamo alla metà degli anni ’70, faranno posto a condomini dalle ampie finestre con vista sulla collina. Ai margini del terreno di gioco le maestre discorrono tra loro, attente che non ci facciamo male o il pallone finisca nel fiume, come è già successo.
Dunque ci sono io che corro lungo l’out sinistro, dicevo all’inizio. Mi piace involarmi così, leggero, la brezza tra i capelli, un filo di sudore sulla fronte, il respiro affannoso. Il mio marcatore si fa incontro, con una finta scatto in avanti e mi libero, lasciandolo sul posto come un paracarro. Stammi dietro, se riesci. È un piccolo trucco che sto mettendo a punto, quello di alzare l’avambraccio a proteggermi in anticipo dall’impatto e, al contempo, deviare la traiettoria del pallone a terra. Non sono dotato di una gran tecnica: ho il collo del piede alto, come dice mia mamma, e non so palleggiare bene come Stefano o Walter, che però sono uno grosso grosso e l’altro un tappetto. Ho un fisico già strutturato da qualche annetto di minibasket e ciclismo, abbastanza atletico per sopperire alla scarsa padronanza della palla e farmi valere lo stesso.
Roby ed io siamo gli scolari più brillanti: i cocchi della maestra, qualche genitore insinua, e forse è vero. Nel gioco del calcio, invece, ci ritroviamo entrambi un po’ estromessi dagli altri compagni. Roby sta in porta, ma gli piace e in effetti è pure bravo: ha il senso della posizione, sui traversoni non sbaglia un’uscita, e poi si tuffa senza paura di sbucciarsi le ginocchia. Io mi defilo sulla fascia laterale, a lavorare di gambe e polmoni. Sì, perché non ho la vocazione del centravanti, mi manca il fiuto del gol che ti fa trovare al posto giusto nel momento giusto come se avessi un radar nelle scarpe. Non so neppure saltare molto alto, in quanto a metterla dentro di testa non se ne parla proprio: anzi, do certe inzuccate da fermo che è meglio lasciar perdere. So invece ragionare bene sul destino del pallone, questa è la mia specialità. Talvolta ragiono anche troppo, è vero, e finisce che un avversario più lesto me lo sottragga dai piedi: in quei casi devo subire i rimproveri dei compagni che mi mandano a quel paese. Però non sbaglio un passaggio che è uno, e quando imbecco Luca o Fede il gol è praticamente fatto.
Già: perché segno poco, ma faccio segnare. In realtà, il mio sogno sarebbe quello di diventare centravanti di sfondamento. Uno di quegli eroi ammirati alla Domenica Sportiva, che con una cannonata infilano il pallone in rete tra palo e portiere, poi corrono verso la curva impazzita in un grido incontenibile, le braccia levate al cielo, attorniati dai compagni esultanti, avvolti in un solo interminabile abbraccio. Invece ho dovuto ammettere a me stesso di non esserne capace, di non possedere quelle qualità di prontezza mista a intuizione richieste a un cannoniere di razza. Non è stato facile. Fare i conti con i propri limiti a undici anni è qualcosa che intristisce più che ad altre età. In cambio, ho scoperto di potermi rendere ugualmente utile alla squadra facendo segnare i compagni più capaci. Ho imparato a gioire di gioia riflessa, provando comunque a essere orgoglioso del mio ruolo. E ho capito che sentirmi comunque bravo, sia pure in un ruolo che ho dovuto ritagliarmi, non è soddisfazione minore di un bel gol.
Così eccomi qui, a correre sulla linea dell’out sinistro, palla al piede, la fascia di capitano e tutta l’immaginazione di un ragazzino delle elementari. Ma oggi, oggi alzo la testa e lo sguardo al cielo, sopra gli alberi un bell’azzurro primaverile, senza nuvole. Gli occhi inquadrano i compagni, fermi ad attendere un suggerimento, e quindi lo spazio libero che si apre davanti alla porta, laggiù, saranno all’incirca venti metri. È un attimo. Abbrevio la falcata, inspiro, sposto il peso del corpo all’indietro, la gamba destra diventa un perno mentre quella sinistra indietreggia a pendolo, il piede s’irrigidisce e colpisce secco la sfera che emette un suono di plastica ed aria compressa. Tonf. Si alza da terra, inizia una lunga traiettoria in avanti e verso l’alto, leggera, un volo di farfalla, pare quasi si arresti in volo, poi ridiscende più veloce fino a planare sopra la faccia e le mani protese dell’estremo difensore. Il fiato trattenuto per tutto quell’attimo infinito si libera in un urlo secco. Gol! E salto, un piccolo balzo, le braccia a quel cielo che mi ha appena sorriso, il petto in fuori, il cuore in subbuglio, a mischiarmi con altre magliette sudate che mi vengono incontro vociando. Poco lontano, la mia maestra ha osservato tutta la scena. Ho segnato!, esclamo squillante. Bene, risponde facendo un gesto complice. Oggi sono il ragazzo più felice del mondo.
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