<< Ricordo quei cinema di una volta >>, racconta il mio amico Luciano, << stipati come carnai di gente caciarona, con il fumo azzurrognolo delle sigarette che annebbiava lo schermo e scatenava accessi di tosse convulsa. Davano sempre i film di Franco e Ciccio, e noi ragazzi di paese facevamo chilometri e chilometri sulla 1100 di papà per andare in città apposta per vederli. A ripensarci, erano orribili. Ne uscivano in media tre o quattro l’anno. Eppure non ne perdevamo uno… >>.
È vero, quei film sono davvero brutti, se non bruttissimi: storiacce insulse, raffazzonate alla meno peggio, goffe parodie senza capo né coda, sketch rimpinzati come oche di umorismo becero e scontato. Per di più con la tendenza costante all’esagitazione, ad andare sopra le righe e fuori giri, indigeribili per lo spettatore fornito di un minimo di buon gusto e buon senso. Eppure Franco e Ciccio restano maschere fondamentali della commedia all’italiana: quella di stampo fescennino, alla buona, fatta su misura per un pubblico senza pretese (quello del facce ride!). Pubblico che, però, ha rappresentato storicamente lo zoccolo duro dei fruitori di cinema. E in mezzo a tante scempiaggini usa-e-getta, girate in fretta e furia per sfruttare la fortuna della coppia, si rintraccia persino qualche perla di non poco valore. Riuscirà l’avvocato Franco Benenato… rappresenta uno dei rari esempi di satira politica negli anni ’70 (e nemmeno troppo benevola). L’Esorciccio, a parte ancora il titolo memorabile, è oggi considerato nientemeno che un capolavoro del trash. E c’è un Don Chisciotte di fattura persino pregevole, in cui Ciccio–Don Chisciotte e Franco–Sancho Panza giocano a completo agio con i toni surreali di Cervantes.
Non dobbiamo poi dimenticare alcune interpretazioni di rilievo: come Gatto e Volpe nel Pinocchio di Comencini, come splendidi protagonisti di La giara – da Kaos dei Taviani –, come pupi siciliani in Cosa sono le nuvole di Pasolini – il quale seppe genialmente collocarli nella dimensione che più si confaceva loro. Della bravura di Ciccio non poteva non accorgersi Fellini: in Amarcord gli fece fare lo zio matto che, dall’alto di un albero, urla il proprio disperato desiderio sessuale con quel << voglio una donnaaa>> ad un tempo comico e straziante.
Pur non avendo mai amato Franco e Ciccio, non mi è dispiaciuto (ri)vederli in Come inguaiammo il cinema italiano, documentario realizzato da Ciprì e Maresco. I due registi hanno sfidato la spocchia con cui la critica ha sempre trattato i film della coppia siciliana, tipico atteggiamento perbenista di chi sprezza quelle donne dalla dubbia moralità con cui ha appena trascorso mezzora. Tuttavia non sono scivolati nelle secche dell’ennesima rivalutazione agiografica a tutti i costi. Semplicemente li hanno ricondotti al loro tempo, presentando un montaggio piuttosto articolato di sequenze, gag, filmati d’epoca, interviste, e commentato in maniera arguta come la materia imponeva. Il documentario vuole essere una rilettura in chiave critica della storia di Franco e Ciccio, omaggio alla loro indubbia professionalità forgiatasi negli anni grazie ad un talento artigianale. Ma ha pure il valore di testimonianza, necessaria se si vogliono comprendere le ragioni obiettive di un successo popolare che pare non abbia fine.
Come inguaiammo il cinema italiano – La vera storia di Franco e Ciccio, di Daniele Ciprì e Franco Maresco (Ita, 2004, 100’). Lunedì 28 giugno, Rai Movie, ore 00,55.