(Pubblicato su Kataweb Forum Cinema nel febbraio 2004)
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La vita è un’altalena che oscilla tra la realtà e la fantasia, unico modo per scampare il dolore esistenziale, l’inquietudine del cuore, la noia di provincia. Con un fruscio leggero, Big Fish fluttua attraverso le storie raccontate da Edward Bloom in un continuo flashback tra l'Io narrante del presente (con l'espressione gommosa di Albert Finney) e le peripezie del passato (affidate alla bella faccia americana di Ewan McGregor). A sospingere questo gioco dell'immaginario è un Tim Burton che ripesca le sfumature di Edward mani di forbice, svuotate però delle campiture dark, e vira verso una fase più adulta della sua produzione. Vero: esiste un filo conduttore che lega tutti i suoi freaks, dagli esordi fino a questo film. Ma se nei precedenti si identificava con i suoi personaggi "diversi", cioè con la figura del figlio, Burton riveste ora i panni del padre. Quello del protagonista è, infatti, un viaggio di formazione alla ricerca del genitore, per restituirgli un ruolo più compiuto: salvo poi scoprire che non esiste una linea di demarcazione netta tra realtà e fantasia, ma l’una scivola insensibilmente nell’altra, e occorre saper riconoscere e conservare la parte infantile di sé. Solo in questo modo egli può finalmente riconciliarsi con l'immagine paterna, quel grosso pesce che non si lasciava mai catturare.
Sottilmente, di fotogramma in fotogramma, di situazione in situazione, prende dunque corpo una retrolettura del film. Ricco di contrappunti ironici (la sagoma del gigante ritagliata sul granaio o l'esoftalmia pazzerella di Steve Buscemi) Big Fish rinnova attraverso immagini e atmosfere surreali la difficoltà di essere normali; o, per dirla meglio, di accettare la propria normalità ritmata tra il vero, l'assurdo e il plausibile. Anche quelli che sembrano gli elementi di un'ingenuità tipica della way of life statunitense vengono asserviti - sottilmente, in controluce - alla necessità di lasciar trapelare il senso di unicità e irripetibilità della vita di ciascuno e degli eventi che la scandiscono (il matrimonio, la nascita di un figlio, la morte): così normali per il resto dell’umanità, ma così straordinari per chi li vive in prima persona. La moglie del protagonista (la bellissima Jessica Lange) non è quindi solo uno stereotipo ma la custode fedele di tante avventure mai smentite.
Il tessuto narrativo è denso di allegorie con cui il regista rimarca la cifra stilistica di chi è sempre con un piede dentro e uno fuori dai registri hollywoodiani. Burton non si è improvvisamente convertito a una logica buonista: il suo talento visivo, spiazzante, allontana qualunque sospetto di compiaciuta affettazione. La sua è un’apologia del sogno e dell’utopia, di un mondo "altro". Non a caso per il suo elogio all’immaginazione si serve del circo come spettacolo "puro", di cui già Fellini riconosceva la magia. E dando voce alle memorie di un anziano va in controtendenza a un'epoca come la nostra che perora la causa dell'eterna giovinezza.
A fine proiezione, mentre ormai scorrono i titoli di coda, l’animo dello spettatore si allaga di un consolante convincimento: "A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie", dice Will, il figlio di Edward Bloom. "Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale".
D’altra parte, se non la racconti che vita è?
Big Fish, di Tim Burton, con Ewan McGregor, Albert Finney, Jessica Lange, Helena Bonham-Carter, Marion Cotillard, Steve Buscemi, Danny DeVito (Usa, 2003, 125’). Giovedì 13 gennaio, Rete4, ore 23,25.
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