Carlo Emilio Gadda pubblicò il racconto sulla rivista "Solaria" nel 1928. Vi è descritta la figura di un giovane istitutore che, dopo aver impartito una lezione privata ad un’allieva, entra in un cinema confuso nella folla della Milano popolare. Nel 1931 "Cinema" entrò a far parte della raccolta "La Madonna dei Filosofi". Anni dopo, Gadda diede da pubblicare nell’antologia "Nuovi racconti italiani" un rifacimento intitolato "Domingo del señorito en escasez". Buona lettura.
[…] II Corso Garibaldi procurava al Cinema Garibaldi l'afflusso più lauto: tortuoso e cosparso di gusci d'aràchidi, di mozziconi di sigarette appiattiti, di scaracchi d’ogni consistenza e colore, c'era il ricordo delle castagne, quel delle arance, per i camminatori degli oscuri cammini luminoso e giocondo segno del Sud: c'era il presentimento dei cocomeri patriottardi. Bucce da marciapiede, care ai chirurghi. Una folla solita a deprecare la pessima organizzazione del mondo, lo percorreva trionfalmente, dimenticando a sprazzi i metodi di cura suggeriti dagli specialisti: come per attimi si dimentica un eterno mal di denti. Sicché, per tutto quel pomeriggio, il Cinema aveva allentato i suoi cordoni di velluto verde trangugiando frotte di stupende ragazze, alcune però con le gambe leggermente arcuate, e un po' troppo grasse: fra le gambe delle quali sgattaiolarono tutti gli undicenni del quartiere.
Queste ragazze della domenica, insomma, mi parevano talora un po' ridicole. Però qualcuna mi piaceva. Sono talora piuttosto gonfie che floride, le più dimesse hanno gonfi portamonete un poco sdruciti: ambiscono sopra ogni cosa di recare una borsetta da passeggio e un cappello, sicché passino inosservate, come una signora qualunque che tutti si volgano ad ammirare. Col gran caldo le borsette finiscono per tinger loro le mani, le quali appaiono alcuna volta un po' rosse e screpolate, a meno che non siano strette dai guanti. Sono i guanti un ingegnoso dispositivo inteso a facilitare vari atti del cerimoniale contemporaneo, come la consultazione dell'orario delle Ferrovie dello Stato o la raccolta dei ventini, quando, preso il resto, se ne seminano per terra tre o quattro, suscitando negli astanti vivo interessamento. Per solito le ragazze in discorso scompaiono dalla circolazione verso le sette: ma il Cinema è un vortice folle, inghiotte anche i più massicci artiglieri. II fatto è che due erano assai graziosamente adorne di fenomenali perle, le quali non parevano destare alcuna cupidigia nei cavaliereschi marioli che le attorniavano.
Gli undicenni e i da meno pagavano mezzo biglietto o una frazione qualunque, per esempio cinque centesimi d'ingresso, secondo la disponibilità del momento. Il distributore faceva un suo rapido conto, qual era il massimo che poteva venir fuori da quelle tasche, di quei calzoni. E puntava sull'imponibile. Alcuni di quei calzoni non conoscevano nemmeno le mani riparatrici della mamma e il conto non poteva andar tanto in là. Spigliati e franchi, e senza lo sguardo implorante del cucciolo che sta per leccarsi i baffi, pretendevano fior di biglietti i giovanotti: piantavan sul banco un tondo fermo, magari un biglietto, e non per ischerzo. E, invece di implorare, condannavano: nella vita non bisogna incantarsi. « Del resto, se fa affari, il Garibaldi, è per noi ». Vestivano dei completi marron o bleu: alcuni dal caldo s'eran però tolta la giacca: le bretelle si rivelavano allora un po' vecchie e sudate: erano affette da complicazioni ortopediche di spaghi e legamenti, tra i quali e i bottoni superstiti della cintura intercedevano rapporti piuttosto complessi. Entravano rumorosamente, inciampando in qualche imprevisto del Garibaldi, sì che di necessità dovevan finire addosso allo sciame gaietto: (« oh! ma dico! »): e le lor mani robuste davano indicazione d'una “settimana” saldamente incastonata nel fenomenalismo economico, le di cui leggi sono, è vero, un po' dure d'orecchio; e non disdicevole neppure alle esigenze del divenire morale: i di cui canoni, sempre larghi di vedute e soccorrevoli con ogni campana quando si tratta di incanalarci verso le molteplici ricevitorie del bene, si piantano però poi come policemen a gambe larghe davanti quella poca minestra, esigendo, uno sguardo fregativo, il vizzo scontrino: lo leviamo con il pianto nell'anima e con un tremendo appetito in corpo e c'è scritto: << Vale per minestre una ». E abbiamo fatto una fatica da cavallo!
Alcuni giovani erano ancor più eleganti, ancor più disinvolti: scarpe a vernice, piega diritta del pantalone, una mollezza elegante non disgiunta da virile trascuranza per ogni aspetto del mondo che fosse estrinseco al problema fondamentale. I loro proventi erano sicuramente più lauti: adocchiavano certe belle, sogguardandole in tralice: recidendo con lo sguardo d'un attimo la continuità dell'ora festosa: e quasi recando nella trama ingenua dell'allegrezza la sensazione di un al di là vero e diverso costituente la vita. Le occhiate ràpide sudice e vili destavano l'ammirazione dei minori, che pensavano, divenuti seri ad un tratto: « Questi sì, che sono già uomini >>. In taluno degli adolescenti che per ispirito d'emulazione s'eran tolta a lor volta la giacca, colpiva lo sviluppo dell'avambraccio rispetto al torace e alle spalle ancor esili: come il cùcciolo del bracco o dello spinone, che gli son cresciute delle zampe che pesano un chilo. Sembrava che quello scarno torace un sussulto di tosse fosse la sua idea naturale: ma l'avambraccio aveva la pesante secchia, dondolatala un po', da caricare in ispalla. E poi con grosse ciabatte su per la rampa.
Mi ingolfai tra la gente e persuasi a me stesso che quell'odorino era una cosa naturalissima, come pure quei fragorosi « ciàk » che a intervalli di quarantadue secondi un espertissimo fumatore largiva al suolo, con sicurezza da maestro: per un istinto squisito dello sfinctere orale, particolarmente congenito a certi prodotti-tipo ma assai diffuso comunque in quegli ambienti, com'è il nostro, che s'improntano a una civiltà millenaria, la traiettoria evitava miracolosamente le giacche limitrofe. Mi ricordò Buonvicino della Ripa e le sinquanta cortesie ch'ei prescriveva si serbassero almeno a desco: « ... È vietato nettarsi il naso nella manica dei buoni vicini... ». Primi sprazzi, in terra lombarda, della luminosa Rinascita.
I trasferimenti vocali del dialogato, con accentuazione di scoppi interieriettivi, mi segnalarono invece una masnada di rusticoni. Eguali dovevano erompere dai petti villosi degli avi i fonismi di che s'accompagnò l'inizio della biologia umana, quando le selve del pleistocene rendevano impensabile un esercizio ferroviario a largo traffico. Nelle profonde pause del vento la mormorazione religiosa delle abetaie si attenuava e come perdeva in sussurri lontani, il sinfoniale era introduzione solenne alla virtù dell’a solo: così fu che i grilli, in sul primo gelo dell'alba, udirono stupefatti il bisnonno di Calibano, allora in preda agli umori di giovinezza, egutturare apostrofi monosillabiche contro i maschi concorrenti. Tutta notte aveva grugnito la sua serenata (appiattandosi dietro un grosso larice).
Il vento s'era restato. Così fu che gli uomini fecero le prime lor prove, i cari uomini, i diletti amici nostri, quelli che saranno di poi per provarsi nell'agorà, nel foro, nell’arengo, dalla Pallacorda, a Montecitorio, al Congresso e dovunque debbasi guidar con voce i cavalli, o loro stessi, in terra lombarda o non lombarda, di festa, di sabato, nel fasto del Cinema, nell'imbratto delle carraie. Quei ragazzotti erano invece un gruppo di rumorosi e robusti foranei da noi detti “ariosi”. Portavano difatti, nella pelle e nel viso, l'aria della patatifera campagna e certe zone dei lor panni domenicali, sul dorso e sugli omeri e altrove, eran tese da discucirsi, tanta salute ci stava dentro.
Ma neppur io potevo darmi delle arie difficili: saggiato a un qualunque tasto dello scibile, avrei potuto essere in quel momento poco evasivo. Sebbene la profondità vellutata del mio sguardo rivelasse una mente fervida in ogni pensiero, tre grosse caramelle mi ingombravano a un tal segno la cavità orale, che un idiota si sarebbe spiegato meglio. Che era accaduto? Uno dei migliori sillogismi del mio repertorio: se una caramella è delizia, tre caramelle sono una delizia tre volte più buona. C’era, bisogna confessarlo, il pericolo di una deglutizione prematura, di uno “strangolamento”, come si dice nella terra inumidita dall'irreperibile Séveso. Appunto per questo, nel crogiolare quei tre saporini, crema caracca, menta glaciale e ratafià, (chissà poi che cos'è questo ratafià), nell'allontanarmi seco loro dal fòndaco della geometria rattoppata, appunto per questo mi davo l'aria più naturale del mondo. Finii per dimenticare anche l'elsa del brigadiere a cavallo che nel frattempo si era intensamente affezionata a quattro delle mie migliori costole.
Ricaddi poi di nuovo nel parallelepipedismo del mondo reale: perché la punta d'uno spillone da signora distava alcuni centimetri. Avvistato lo spillone, ritenni doveroso di dare un’occhiatina anche al resto, pur seguitando nel dilettevole proscioglimento. Era vestita nei toni bleu-verdi prediletti dalle guardie civiche e il cappello avrebbe suscitato l'invida cupidigia di Alfonso Lamarmora, tante penne verdi ne rampollavano. Mi guardava anche lei, a sua volta, e piuttosto maluccio: dai dintorni d’un naso aquilesco e pallido, affilatissimo, mi lanciava occhiate sature d'una viperina perfidia: poi, contraendo le labbra per aspirar lentamente un suo lungo, sibilante fiato, si raccoglieva nelle spalle con un sussiego decoroso e pieno di tragici sottintesi.
« Oh, che cos'ha questa signora? », pensai, arrossendo senza volerlo. Eravamo stipati. E siccome ero un po' impressionabile, i miei amici mi suggerivano, in simili frangenti, di toccare con due o tre polpastrelli un pizzico di qualche solfuro od ossido o carbonato o silicato metallico come pirite, blenda, calamina, bauxite, siderite, galena, leucite, dolomina, o anche ottone, o meglio ancora ferro omogeneo. Andai dunque in cerca della chiave di casa, che solevo tenere nella tasca posteriore dei pantaloni: nel palparla poi accanitamente, rigirandola in ogni senso, la feci collidere contro intenzione con qualche cosa di duro che pertineva all'impalcatura esterna della distinta signora. Il fiato che stava aspirando le sibilò allora fra la lingua e i molari. « È inutile fingersi distratti », sembrò significare l'occhiata verde-cloro con cui mi fissò: « Io osservo, noto e giudico. E le manovre dei mascalzoni le indovino in anticipo ». Il mio abito era purtroppo un po' levigato: privo di quella scioltezza elegante che si ammira nei giovenili diporti, e senza nemmeno la linea della strafottenza sgangherata e spavalda consueta a certi figuri che, trangugiati liquori di seconda qualità, squadrano come dicendo: « Sì, proprio: se vi pare è così: se no, è così lo stesso. Avete forse cento lire da rimediarci? ». Adorno invece di cinque o sei buone intenzioni, nessuna raggiungeva il bersaglio psicologico a cui era diretta. Ora è noto che i pattuglioni della diffidenza fermano volentieri gli spelacchiatelli (mentre certi pessimi figuri, dai calcagni sbilenchi, si sottintende che siano già registrati). Sicché a quello sguardo, stretto com'ero dalla coscienza d'una situazione molesta, pentito dell'irriverente uso a che avevo adibito la chiave, arrossii anche più. « Farabutto! », mormorò la signora sprigionando l'occhiata definitiva, con tendenza all'arancione. E mi volse risoluta le spalle, raccogliendosi in un'estrema, degnissima levata del capo. II cespo delle penne verdi fu corso da un fremito.
Due soldati si volsero: avevan fin là tenuto fra loro un loro discorso, in una parlata ricchissima di zeta e di emme: adesso gli prese il bisogno di manifestare i loro sentimenti cavaliereschi. Anche il brigadiere mi guardava cupo. « Ce ne sono davvero dei farabutti », disse il primo soldato esprimendosi in un italiano soddisfacente. « Si approfittano delle donne sole », disse l'altro, con accenti di sconsolata amarezza. In verità io non m'ero approfittato che della mia propria chiave del portone di casa mia: atto di gusto discutibile, è vero, ma non tale da motivare un intervento della generosità altrui in difesa del “debole”. Dell'essere così stipati, colpa non ce ne avevo: e se la fiancata della signora, babordo e tribordo, aveva munizione d'una corazzatura completa di stecche di balena e fil di ferro, tanto meno ce ne potevo. Dalla rabbia le avrei strappato giù dalla testa tutto il cespuglio con lo spillone dentro, e volevo dire a quei due che la zeta è difatti l'ultima lettera dell'alfabeto: ma non conviene di farne spreco, quando si è cavalieri. Senonché l'orgasmo della folla mi vietò una qualunque ripresa: dei campanelli sonavano a perdifiato nella sala del mistero, di là dalle tende di velluto frusto. Di qui la musica era più varia: ai camerlenghi del cinema venivan rivolti sgraditi incuoramenti, allocuzioni sguaiate ed appelli, apostrofi assordanti, esortazioni e fischi e barriti d’ogni genere. Un gruppo di ragazzotti si diede a sibilare ed a premere disperatamente: strette frammezzo la maramaglia, le ragazze non sapevano più che pesci pigliare.
Visto allora che in quei paraggi avevo una cattiva stampa, feci roteare a più non posso le tre caramelle, le guance furon corse da sì mobili protuberanze, da smentire qualunque sospetto d'altre intenzioni; e volli avvalermi dei rimescolamenti e bollore del magma per tentare una migrazione, sull'esempio di un antico agnato di mia gente, un irascibile Visigoto, il quale un bel giorno, che è che non è, trasferì le sue tende sulle rive dal Tago, con casseruole e tutto. Così senza parere, e talora con bel garbo, con qualche spintarella, gomitatina e con dei simpatici « con permesso », mi diedi a fendere l'impasto bizzarro, dove alcuni sospettosi e ringhiosi droghieri democratici, grossi grumi di ortoclasio, facevano da nocciòle nel mandorlato (le mandorle autentiche erano più discoste). Il loro sguardo sprizzava Giustizia e Diritto in tutte le direzioni: a giudicare dalla catena dell'orologio, anche le bilance loro dovevano essere apparecchi integerrimi, tarati al milligrammo. Quanto alla carta di barite, si tratta d'una prammatica universale.
Elusi il Diritto, circumnavigai la Giustizia e arrivai con tutti i miei bottoni presso una frotta di ragazze, di cui una, lei!, mi colpì davvero. Cosa non dovette patire la signora dal naso affilato nell'appercepire quelle mie manovre: trangugiò rivoletti di saliva verde, sarcastica come una cucchiaiata di salsa di peperoni e senape. « Ham! Il fintone ne medita una delle sue ». Quella bimba invece non aveva l'annoiato cipiglio della contessina Delrio, né vi era in lei lo sprezzo villano del gelatiere, né il sospetto ingiurioso della pennuta ed affilata isterica, né nobiltà d'animo sonante per emme e per zeta: e né presso lei odorose scansie, colme di diritti conculcati da rivendere al minuto. Mi guardò con una serenità limpida e fervida: un essere umano trovava finalmente ragionevole di accordarmi il mio ticket per il mio viaggio tra i vivi. Ella, cara bimba!, non sollevò pregiudiziali nei riguardi della mia giacca, alla quale dopo tutto nessun serio appunto poteva muoversi: né in causa de' miei probabili alfabeti: né per quel che di faticato e distratto che avevo nel viso. […]
Improvvisamente la sindrome tipica delle frenòsi collettive si manifestò nel magma. Impazzirono tutti. Non furono più che degli accamaònna e orcoìo, fra gomitate e strappi paurosi. Dal foderame de' panni emergevano volti tumefatti, nel mentre particolari oggetti di rifinimento si allontanavano dal proprio insieme come sciarpe o mezze giacche o qualche ombrello restìo che, tenuto disperatamente da cinque dita e da un pezzo di braccio male incastratosi fra gli omeri di due sconosciuti, seguiva il proprietario un po' da lontano. Invocazioni disperate dei gracili, degli erniosi, dei denutriti, e così degli asfittici, gelavano i cuori sensitivi. E tutto si confuse in un violento torrente il quale, dopo intoppi e gorghi d'ogni maniera, proruppe rigurgitando nella diabolica sala, così come dai valichi retici usò dilagare verso melme padane la paurosa gente, nomine Unni. I nasuti e colti Insubri che, venusti di spirito giuridico, erano assisi nel clamoroso teatro, accolsero la cavalcata del Re Attila con la muta e dignitosa protesta di un Tertulliano a cui un Alarico gli dica: « Lo vedi? » e gli metta sotto il naso un nocchiuto paletto di querciolo. Un’ora prima quegli “humanissimi” erano stati, agli Eruli, Goti.
Richiami frenetici, interiezioni selvagge, indicazioni topografiche radiotelegrafate ai congiunti, cui dalla stretta materna la tempesta divelle e sperde nel mare, gioia barbarica per seggiole conquistate e forsennato trepestìo di bipedi fra quadrupedi seggiole, fecero impallidire i migliori brani descrittivi della Gerusalemme, Rinaldo dileguò dal ricordo — nel mentre i primi cosciotti di fruttivendoli quarantenni si assestavano tra i fibrosi lacerti e malcomode baionette degli alpini limitrofi, duri che non si muovono, maledetti muli. E mentre lei, la bimba, più non vedevo dov'era, la signora Lamarmora veniva riversata nella sala dal mugghio spumoso degli ultimi spaventevoli cavalloni. Date alla tempesta tutte le sue penne, « Villani, villani e villani! » la si sentì strillare: e folgorava Poseidone con così perfide occhiate, da indurre in quel colosso, pur così avvezzo all’umidità e alla vita acquatica, dei réumi di origine psichica.
Nella tenebra liberatrice in cui piombammo ad un tratto ogni urto fu attenuato e il boato delle passioni umane vaniva.I silenti sogni entrarono così nella sala.
(C. E. Gadda, Cinema, in La Madonna dei Filosofi, Torino, Einaudi, 1973)
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