Aprì gli occhi lentamente, ridestandosi con fatica da un
sonno denso. Dov’era. Merda, si era addormentato sulla poltrona del salotto, la
coperta sulle gambe, la luce accesa. Guardò l’ora. Le sei del mattino. In che
stato… Si ricordò di aver lasciato il cellulare acceso. Era ancora lì, sopra i
libri e le riviste. Nessuna chiamata. Non si meravigliò. Avrebbe dovuto? No. Però
aveva conservato un filo di speranza. Inutile. D’improvviso venne percorso da un
brivido di freddo. Si alzò. Il termostato nell’ingresso segnava appena sedici
gradi. Fuori la temperatura doveva essere sotto lo zero. Accese la caldaia, poi
andò in bagno, si lavò il viso. Tra i capelli arruffati ne scorse uno bianco
che gli scendeva dritto sulla fronte. Fece una smorfia. Era un segno, e lui ai
segni credeva. Le cose inanimate suggeriscono chiavi di lettura cui occorre
prestare attenzione. In qualche maniera c’entrava Jung. Sincronicità. Gli
piaceva questo concetto. Coincidenze significative. E pensò a un’altra parola
che negli ultimi tempi era ritornata insistentemente. Serendipity. Come quei
marinai che erano partiti per l’India e invece avevano scoperto Ceylon. Solo
che, a lui, Ceylon era stata fatale.
Quel mattino doveva rimanere a
casa per completare una relazione cui aveva dedicato tutta la sera precedente.
Facendo colazione, gli si riaffacciarono alcuni propositi concepiti mentre si
trovava in quella terra di nessuno compresa nel dormiveglia. Solitamente
cercava di evitare decisioni che gli sembrassero definitive, in qualche maniera
irrevocabili. Preferiva lasciare aperto uno spiraglio a quelle eventualità inattese
che la vita non di rado presenta. Stavolta gli si era affacciato un proposito
risolutivo. E se questo pensiero per un verso lo turbava, per un altro lo
inebriava. Un pensiero diabolico. Come la lucida esaltazione del kamikaze prima
di gettarsi su un incrociatore americano.
Si mise all’opera. Aprì la
valigetta ed estrasse una discreta quantità di appunti sparsi. Erano fogli di
quaderno, pagine strappate da un’agenda, retro di fotocopie, persino un
tovagliolo di carta ripiegato. Tutto quanto riempito di una grafia minuta, come
un geroglifico di linee e punti che nessuno riusciva a decifrare (talvolta neppure
lui). Conservava gelosamente le note scribacchiate di getto in qualunque luogo
si trovava, nonostante le ricopiasse fedelmente sul computer. Considerava
quella brutta copia come una testimonianza in presa diretta del proprio
esistere, la prova certa del suo passaggio dentro il mondo. Una maniera per
fissare e ricalcare tracce che altrimenti si sarebbero disperse nella memoria.
Raccolse alcune carte e cominciò a
strapparle, una a una, lentamente, rumorosamente senza nemmeno controllarne il
contenuto. Avvertì all'istante una fitta aprirsi nello stomaco e da qui prolungarsi
fino al cuore, eppure il tormento che andava a infliggersi era necessario. Sebbene
la natura del peccato commesso continuasse a rimanergli oscura, doveva espiare
fino in fondo. Solo alla fine sarebbe guarito dal male. Qualunque esso fosse.
.
Tutta la carta, lacerto per
lacerto, finì nel cestino dei rifiuti, tuttavia la sospirata catarsi non si
realizzò. Anzi, ora si sentiva persino peggio. Tremava, come avesse la febbre
alta. Chiunque altro, al posto suo, avrebbe pianto. Poteva fargli bene, certo,
si sarebbe liberato di quell’angoscia incatenata dentro, l’orgoglio però gli
vietava di concedersi simili debolezze. Nel tempo si era abituato a chiudere i
canali lacrimali e a lasciar scorrere lacrime immaginarie. Era diventato un
riflesso, non sarebbe stato capace di comportarsi in altro modo.
Ben altro compito lo attendeva
ora. Si avviò al computer, lo accese, attese pazientemente che il monitor
s’illuminasse. Cliccò sulla cartella dei documenti, scelse una sottocartella, la
aprì, e d’improvviso apparve una foresta di file. Sospirò. In questo sancta
sanctorum erano racchiusi gli ultimi dieci anni di parole, di emozioni, di
racconti, di lettere, di confidenze fatte e ricevute. Scorse in sequenza i
titoli, sorridendo mollemente. Ricordava per filo e per segno. Gli pareva di udire
ancora il crocchiare della tastiera sotto le dita (una volta l’aveva paragonata
alla vecchia Singer della nonna). Gli sembrava persino di udire lo strofinio sul
tappetino del mouse (topolìn-topolìn).
Il ronzio del pc stava entrando
in risonanza con il malditesta. Si lasciò andare sullo schienale della sedia e
sospirò di nuovo. Esitò. Si domandò quale senso e quale utilità potevano
racchiudersi in una radicale pulizia esistenziale come quella che si era
imposto. Eppure no, non doveva abbandonarsi a quella marea montante di ricordi
che lo stava trascinando via dal compito prestabilito. Chiuse gli occhi. La
tensione lo stava sfinendo. Con un piccolo gesto selezionò tutto. Mouse destro,
finestrella. Elimina. Spostare nel cestino? Ok.
Fu soltanto un click, ma durò una
vita intera. La disperazione rimasta fin lì immersa nei fondali sabbiosi del
petto proruppe in un singhiozzo sgraziato, una specie di verso primitivo che
emergeva da un territorio sconosciuto. Le lacrime addensate fino a quel momento
ruppero gli argini e cominciarono a sgorgare copiose, inarrestabili.
Andandosene, lei aveva portato
via con sé tutte le parole che era stato capace di pensare. Gli aveva sottratto
tutto l’amore che aveva scoperto, ritrovato, che non aveva mai saputo di
possedere. Il cuore gli si era fatto da quel momento arido, desolato, come la
savana dopo che un incendio ha appena finito di bruciare. Cosa avrebbe potuto
scrivere adesso se non per sottrazione, cancellando lettera per lettera, fino a
giungere a un’afasia perpetua. Avrebbe liberato nell’arena quel toro che era la pagina bianca da riempire. Abbandonate muleta e banderillas in terra,
serrati gli occhi, si sarebbe chinato e lasciato trafiggere senza opporre
resistenza.
Certo, avrebbe continuato a
riempire carte. Ma soltanto per lavoro, adempiendo rigidamente gli obblighi
burocratici, adottando lo stile più asettico e impersonale che gli sarebbe
riuscito. Il mondo era penetrato inaspettatamente tra gli strati delle convinzioni
accumulate negli anni e ora subiva l’impatto della realtà a lungo rimasta fuori
da sé. Sentiva l'urgenza di tornare al presente, di rioccupare uno spazio fisico,
di chiudere gli interstizi virtuali, di riappropriarsi del tempo perduto.
Come ultimo,
estremo, paradosso, decise tuttavia di consegnare alla propria memoria una
testimonianza scritta della sua rinuncia. In quella stessa cartella rimasta
vuota, aprì perciò un nuovo documento. E affidò alla luce vivida del monitor un
ultimo racconto.
Questo.
Naturalmente
ho cercato di non farlo apparire troppo autobiografico, ho inventato una
situazione e particolari che fossero verosimili e non veri. Tuttavia non ho
potuto impedirmi, per un’ultima volta, di nominare le cose con il loro nome.
Anche quelle che ignoravo l’avessero.
Ora che sono arrivato davvero all’epilogo,
lo ammetto, avverto un cedimento, una debolezza estrema che mi paralizza i
movimenti delle dita, la resa mi frena i pensieri, non riesco a trovare il modo
di concludere, no, è che non voglio trovarlo, resisto, provo come un vuoto, l’affanno
mi chiude il petto, è la paura dell’addio, come alla stazione quando il treno
parte, i fazzoletti sventolano, le lacrime spiovono, e io detesto quei momenti
in cui l’irreparabile si compie, per questo alla stazione non ci vado più, per
questo diserto i funerali e mi rintano in me stesso, per questo l’ho lasciata andare
nonostante l’amassi, e adesso, adesso è la fine, sì, la fine, dover mettere un
limite, arrestare la corrente, interrompere il flusso, perché mi piaceva quando
inventavo, stavo bene, era come un orgasmo, e io volevo godere ancora, senza
limiti, ma non potrei più, tanto vale terminare qui, sì, la fine, perché,
ancora un attimo, ti prego, lasciami scrivere ancora un momento, fammi correre
su questi tasti come su un prato bianco, sotto la luna, come una volta, sotto
la luna, ricordi, sì, lo so che ricordi anche se dici di no, dimmelo, ti prego,
ancora una volta, ricordi, vero, ricordi, perché io non so dimenticare, non
dimentico chi mi ha donato amore, anche solo per un breve istante, anche se mi
hai sottratto una parte di me, anche se ora arrivo alla conclusione, perché un
punto fermo devo metterlo, e dopo il punto non ci sarà più nulla, ti rendi
conto, più nulla, il vuoto, sai cos’è il vuoto, ti spiegai una volta il vuoto, quando la vita scompare e non rimane che l’assenza, il
niente, tu non sai cos’è il niente, questo buio intorno, spesso, pesante, senza
voce né rumore né odore, il silenzio assoluto, il pensiero che s’invola, via,
via, lontano, per sempre senza lasciar traccia, mai più, come non fosse mai
esistito, al termine della frase adesso occorre un segno che porti al
compimento, al completamento, e allora prolungo all’infinito quest’attimo
eterno, ma in fondo all’infinito, all’indefinibile, all’inesprimibile, in fondo
in fondo, la frase si chiude tuttavia sempre e comunque pur sempre e comunque
con un.
(Prima stesura: novembre 2004)
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