Più che un sogno strutturato,
dovrei rievocare sequenze sparse nelle quali si succedono avvenimenti di cui ho
appena qualche flash. Fino al punto in cui mi trovo nel salotto di casa e,
attraverso la porta finestra, noto uno sconosciuto sul terrazzo. Non capisco
come sia potuto giungere fin lì - probabilmente il cancello del giardino è
rimasto aperto -, comunque, restando dietro i vetri, gli ordino di andarsene. L’uomo
scompare ma, inspiegabilmente, lo rivedo nell’ingresso al piano
terreno. Gli impongo nuovamente di uscire, invece lui si fa avanti e mi blocca i
polsi. Volgo lo sguardo verso l’uscio rimasto spalancato, fuori c’è gente,
chiedo aiuto, però emetto una voce troppo flebile perché sia udita. A dire il
vero non provo angoscia, anzi, la scena si gioca in un’atmosfera alla Caccia al ladro. E in effetti, ho la
sensazione che anche gli episodi precedenti del sogno si rifacessero a una
specie di giallo-rosa stile British, con colpi di scena e sorprese a lieto
fine.
Per associazione, adesso mi ritrovo sulla
tangenziale di Londra a inseguire un autobus tipo Magical Mystery Tour. Inseguo
per modo di dire, in realtà cammino con passo tranquillo perché il mezzo
procede piuttosto lentamente. Dopo un po’, il bus si arresta a una
fermata nei pressi di uno svincolo che curva verso un viadotto sospeso su un
paesaggio agreste. Salgo a bordo, e qui m’imbatto in un gruppo di amici che non
so chi siano. Tutti tengono tra le mani un libro - il mio libro! - nel quale ho
raccontato le vicende del sogno sino a quel preciso momento. Ne leggo ad alta voce
un breve estratto. Penso che è scritto benissimo, prosa piana e scorrevole,
quasi mi stupisco di me stesso. Lo richiudo e guardo il titolo in copertina. Reven Street. Eh già, mi rivolgo al
pubblico, si pronuncia reiv’n, non rev’n o riv’n, perché la storia è ambientata appunto a Londra.
Apro gli occhi chiedendomi se esiste
veramente a Londra una via che porta quel nome. Dovrei controllare, ma dubito.
E poi, cosa significa Reven? Per quel
che ne so, è un’espressione priva di senso. E allora?... La luce del giorno
filtra incerta nella stanza, dev’essere ancora presto e io intanto sono già lì a rimuginare.
Mumble, mumble. Reven - si scrive Reven,
si pronuncia reiv’n… che cosa mi fa
venire in mente quel nome? Eppure ricordo qualcosa, souvenir liceali… Massì! The Raven! Certo, la poesia di Poe. Il corvo…
Caso chiuso, Mr. Holmes? No
davvero, che diamine, ce n’est qu’un debut. Che cosa c’entra Poe? E perché The Raven? Vediamo, una cosa alla volta.
Poe, perché ho letto da poco una citazione che lo riguardava. E fin qui ci
siamo. Ma, constato, se devo pensare a Poe mi vengono in mente Casa Usher, Il Pozzo e il Pendolo, Gordon Pym (ovvio), La sepoltura prematura… Il corvo è appena l’ultimo anello della
catena associativa. Sembra quasi un indovinello. L’indovinello che il mio Inc
ha proposto - probabilmente sogghignando - al C confidando nella sua pochezza. E
va bene, se è un indovinello proviamo a risolverlo. Dunque. Che cosa
dice il corvo in quella poesia? Una parola… aspetta, aspetta, ce l’ho qui… Nevermore.
Giusto. Nevermore.
Comincio a mettere insieme i frammenti.
Vado a memoria. Il protagonista pone al corvo una serie assillante di domande:
l’ultima riguarda la donna amata che è scomparsa, forse morta. La rivedrò
ancora? chiede tormentato. Il corvo dà ogni volta la stessa secca risposta:
mai più. In quell’espressione c’è qualcosa di lugubre e soprannaturale che
raggela il cuore. Il sogno però, come ho detto, si svolgeva in un’atmosfera
serena, aveva colori tenui, clima primaverile. Very British, per l’appunto. E
allora? A cosa devo riferire quel mai più?
Ritorno ad alcuni fatti personali
che sono successi nei giorni scorsi. Situazioni che, come mio solito, avevo eccessivamente
caricato di apprensione si sono risolte invece con facilità inaspettata ed
esito brillante. Traggo una conclusione ovvia: drammatizzare la realtà, affrontare
gli eventi come fossero sempre questione di vita o di morte, eleva lo stress a
livelli eccessivi e costituisce un inutile spreco di energia. Il mio problema è
che penso troppo: architetture mentali fuori misura ingombrano il campo della
mente, sembrano ciclopiche sculture primitive accatastate alla rinfusa che mi
costringono ad affrontare giri interminabili. Ecco allora il senso di quel mai
più. Mai più prendere tutto esageratamente sul serio. Mai più inseguire un’eccellenza
indeterminata, una perfezione illusoria, di regola frustrata. Sviluppare invece
una concezione più lieve della vita, accettare i limiti, apprendere dagli
errori, colmare per quanto possibile le lacune. La mia unica preoccupazione
dovrebbe riassumersi così: qual è il minimo che devo fare per fare bene? Fare
le cose sufficientemente bene sarebbe già tanto. Come diceva Winnicott? Stare
vivi, svegli e in buona salute. Ogni volta che inizio qualcosa, attendermi solo
di poterla continuare, di sopravvivere a essa e di terminarla. Occorre altro?
(Febbraio 2013)
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