La prima volta che ebbi notizia del Ponte sullo Stretto avevo sei o sette anni. Credo fosse una rubrica di
Topolino del genere
Lo sai che?... in cui se ne dava per prossima la realizzazione. Correvano i primi anni ’70, l’eco del Boom economico non era stato ancora spento dall’Austerity, il progetto riguardante un ponte che collegasse Reggio e Messina non appariva tanto immaginifico. Una sera, mentre si cenava, riportai questa informazione a mio padre e lui, con una certa sicumera, rispose che non era possibile. Perché?, gli domandai. Perché la Sicilia si allontana dall’Italia di molti metri all’anno e il ponte crollerebbe quasi subito. Le sue parole mi impressionarono: non capivo il motivo per cui l’articoletto su
Topolino non ne parlasse, e tantomeno l’enciclopedia
Conoscere grazie alla quale placavo la mia istintiva sete di conoscenza. Ora: dubito forte che mio padre sapesse qualcosa di Alfred Wegener e della deriva dei continenti. Probabilmente, quella fu invece la prima volta in cui lo sentii proferire una scempiaggine madornale. Negli anni mi sarei abituato alle sue fesserie, ai nomi storpiati, alle cifre sparate a caso, per non dire delle invenzioni di sana pianta. Inizialmente mi prendevo la briga di mettere in discussione certe affermazioni che non stavano né in cielo né in terra: in seguito però, di fronte alle sue reazioni adirate, cominciai a tacere e a infischiarmene. Perché mio padre non è uno di quei gaffeur bonaccioni, un po’ pirla ma in fondo simpatici: mio padre è un paranoico irriducibile, di quelli che, se contraddetti, perdono il controllo e diventano verbalmente aggressivi. Nonno Sigismondo mi avrebbe spiegato alcune cose sul suo comportamento nei miei confronti, ma ciò accadde molto tempo dopo. Allora invece ero piccolo e le sue parole conservavano ancora una certa aura di credibilità.
Afferrai dunque l’Atlante DeAgostini dalla libreria, lo aprii alla pagina dell’Italia fisica e cominciai a figurarmi la Sicilia che si muoveva. Pensai che avrebbe potuto schiantarsi contro la Libia o la Tunisia, oppure viaggiare verso ovest e spingersi fino alla Spagna. No, magari sarebbe rimbalzata lungo le coste qua e là come una pallina da flipper. Mi venne da ridere. Se la Sicilia si spostava, anche la Sardegna avrebbe fatto la stessa fine. La Corsica. Per non dire delle Baleari. E così Malta, Creta, Cipro… Mi pareva di vedere tutto questo autoscontro sgangherato di isole nel Mediterraneo e, va bene Pangea e Panthalassa, però dubitavo forte di tale eventualità. Il ponte di Brooklyn allora? Possibile che New York se ne stesse lì immobile mentre nel resto del pianeta si scatenava un gigantesco incontrollabile ambaradàn? Provai a elaborare un’ipotesi alternativa: quello di Brooklyn era un ponte di gomma. Ecco perché la pubblicità chiamava i chewing gum omonimi “la gomma del ponte”. Anche quello sullo stretto di Messina potevano farlo di gomma: si sarebbe allungato e stiracchiato quanto basta. E poi avrebbe ancorato la Sicilia al resto d’Italia evitando un mezzo disastro planetario. A dire il vero, questa ipotesi alternativa H1 non durò che l’espace d’un matin. Ero un bambino dalla fantasia sbrigliata, però la mia parte razionale riportava sempre sulla terra i sogni ad occhi aperti. Non per caso, dopo dovute ponderazioni, avevo rinunciato all’idea di trasformare l’Ottoecinquanta di famiglia nell’auto di Paperinik. Considerai dunque che il ponte della Gran Madre era fabbricato in pietra, e così tutti gli altri ponti di cui sapevo qualcosa. Misi allora l’animo in pace e passai ad argomenti più consoni alla mia giovane età, come i compiti di matematica e la raccolta di figurine.
Ogni volta però che, nei decenni successivi, il progetto del Ponte sullo Stretto è stato riproposto (e le volte sono state davvero tante), mi ritorna alla mente la storia che vi ho raccontato. Non ho ancora sentito avanzare l’ipotesi di un ponte di gomma, ma confido che, tra le molte scemenze, prima o poi verrà fuori anche questa. Tanto che finirò pure per rivalutare mio padre.
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